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La
Corte di Cassazione con la sentenza in commento affronta la
problematica riguardante la sussistenza o meno di un diritto del
dipendente - ripetutamente assunto a termine dallo stesso
datore di lavoro - di vedere riconosciuta – in ipotesi di
dichiarazione giudiziale di illegittimità del termine e di
conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo
indeterminato – l’anzianità di servizio
maturata e i conseguenti diritti patrimoniali riconducibili ai relativi
scatti.
Un tema sul quale, nel caso di specie, il tribunale non si era
pronunziato e che la Corte d’appello aveva risolto ritenendo
la pretesa in questione soddisfatta dall’indennità
omnicomprensiva prevista dall’articolo 32, comma quinto,
della legge 183/2010.
Nel cassare la pronunzia di secondo grado, la Cassazione ricorda che
l’articolo 1, comma 13, della legge 92/2012 ha chiarito che
detta norma «si interpreta nel senso che
l’indennità ivi prevista ristora per intero il
pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive
e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine
e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato
la ricostruzione del rapporto di lavoro».
Per la Suprema Corte «l’indennità è volta al
“risarcimento” del lavoratore. Quindi concerne un
danno subito dal lavoratore e cioè un danno derivante dalla
perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un
danno da mancato lavoro».
Se così è, però, secondo i giudici di
legittimità l’indennità prevista
dall’ articolo 32 «non riguarda il periodo (in caso
di un unico contratto a termine) o periodi di lavoro (in caso di
più contratti a termine). I diritti relativi a questi
periodi non possono essere intaccati e inglobati
nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non
lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed
il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di
eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da
un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa
effettuata».
Diretta conseguenza di questo principio, conclude la Corte,
è non soltanto il diritto alla retribuzione,
bensì anche a «che tale periodo o tali periodi
siano computati ai fini della anzianità di servizio e,
quindi, della maturazione degli scatti di
anzianità».
Con
sentenza 15 del 7 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha affermato che
risulta sproporzionato e, quindi, illegittimo il licenziamento intimato
a un lavoratore, che usufruiva di un alloggio del datore di lavoro a
condizioni estremamente vantaggiose, per non avere comunicato di
essere, a sua volta, già proprietario di altri beni
immobili. Il fatto materiale su cui è stata chiamata a
pronunciarsi la Suprema corte si riferiva, in tal senso, ad un
lavoratore che aveva sottaciuto la sua reale situazione abitativa allo
scopo di continuare a beneficiare dell'alloggio messo a disposizione
dal datore di lavoro per un irrisorio corrispettivo di euro 18,00
mensili.
In sede di giudizio era emerso, tra l’altro, che il
lavoratore non aveva risposto alla lettera in cui gli si chiedeva di
comunicare la propria situazione abitativa, disvelando in tal modo la
propria consapevolezza circa il fatto che la concessione
dell’alloggio datoriale a uso abitativo era sostanzialmente
incompatibile con le proprietà immobiliari da lui detenute.
La Corte di cassazione valorizza e riconosce l’esistenza
degli addebiti mossi in sede disciplinare al lavoratore e ne censura il
comportamento contrario ai canoni della correttezza e buona fede, ma
ritiene che, alla luce di un giudizio di proporzionalità
sulla gravità dei fatti oggetto di contestazione, il
licenziamento risulti eccessivo e, dunque, sproporzionato. In forza di
tale assunto, la Suprema corte, facendo applicazione
dell’articolo 18 della legge 300/1970, ha confermato la
condanna del datore alla reintegrazione in servizio e al versamento di
un indennizzo risarcitorio corrispondente alle retribuzioni perdute dal
lavoratore a seguito del licenziamento.
La
Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del
licenziamento per giusta causa di un dipendente che, pur essendo da
tempo asseritamente affetto da una patologia che ne aveva determinato
la inidoneità sopravvenuta parziale alle mansioni e pur
avendo ottenuto la ricollocazione in nuove mansioni compatibili con
tale inidoneità, era stato scoperto a svolgere
un’attività sportiva che comportava sforzi fisici
decisamente incompatibili con l’inidoneità
dichiarata e certificata.
In aggiunta è stato ribadito dalla Suprema corte,
così come già statuito in primo e in secondo
grado, che “l'obbligo di fedeltà a carico del
lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello
risultante dall'art. 2105 cod. civ., dovendo integrarsi con gli
articoli 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede
anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non
danneggiare il datore di lavoro”. Il lavoratore
deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti
espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi
altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze,
risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella
struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera
preordinazione di attività contraria agli interessi del
datore di lavoro potenzialmente produttivi di danno”. I
giudici della Suprema Corte hanno rimarcato il fatto
che la pratica di disciplina sportiva lesiva di una
condizione di salute già di per sé compromessa,
che ne limita la capacità di lavorare, per quanto effettuata
al di fuori del rapporto di lavoro, pregiudica ulteriormente le
condizioni fisiche e ne rende più improbabile un possibile
miglioramento.
In
materia di qualificazione del rapporto di lavoro, la Corte di
Cassazione ha ribadito i criteri generali utili al riconoscimento di
una prestazione di lavoro subordinato, quali l’eterodirezione
della prestazione lavorativa, l’inserimento
nell’organizzazione aziendale, la continuità della
prestazione stessa, il rispetto dell’orario di lavoro e la
corresponsione di un compenso fisso e mensilizzato.
Nella Sentenza n. 618 del 15 gennaio 2015, richiamando i criteri sopra
indicati, la Suprema Corte ha confermato la condanna inflitta dalla
Corte territoriale all’azienda confermando la sussistenza di
un rapporto di lavoro subordinato sin dall’origine, con la
necessaria conseguenza di essere tenuta a versare le differenze
retributive alla segretaria, che veniva retribuita previa
emissione di parcella come una lavoratrice autonoma.
Il Collegio ha evidenziato come la consulenza del lavoro debba rientrare a pieno titolo fra le attività riservate ai Consulenti del Lavoro in base a quanto stabilito dall’articolo 1 della legge n. 12/1979.
Ci si riferisce, in particolare alle attività riguardanti:
– l’adeguamento delle buste paga a seguito di eventuali variazioni retributive e normative (il quale presuppone un’attività di contestualizzazione normativa cui sono sottese valutazioni di carattere tecnico – giuridico non espletabili in via automatica);
– l’assolvimento degli adempimenti presso gli enti pubblici territorialmente competenti coinvolti nella gestione dei rapporti di lavoro (es.: istituti previdenziali, assicurativi, Direzione Territoriale del Lavoro, Agenzia delle Entrate ecc.), mediante redazione, consegna, accesso presso gli uffici o invio telematico della documentazione dovuta all’ente pubblico competente da parte del Fornitore.
– la consulenza per l’amministrazione del personale con particolare riguardo a quelle da fornire in occasione di eventuali accertamenti ispettivi, garantendo la presenza di un consulente competente presso la Fondazione entro 24 ore dall’inoltro della richiesta” e “in occasione di vertenze di lavoro”.
E’ evidente che, in tutte le ipotesi richiamate, le attività richieste non si limitassero allo svolgimento delle operazioni di mero calcolo e stampa dei cedolini (nonché a quelle meramente strumentali ed accessorie) per le quali il quinto comma dell’articolo 1 della l. n. 12 del 1979 consente che la prestazione possa essere svolta da centri di elaborazione dati (è da ritenere, costituiti anche in forma di società commerciali) purché “assistiti” da un o più soggetti iscritti agli albi di cui al primo comma dell’articolo 1 della legge medesima.
Al contrario, lo svolgimento delle attività in parola presupponeva lo svolgimento di attività di carattere intellettuale implicanti l’acclarato possesso di specifiche cognizioni lavoristico-previdenziali (attività per il cui svolgimento opera la più volte richiamata riserva dell’iscrizione agli albi professionali di cui alla l. n. 12 del 1979).