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GiurisprudenzaScarica PDF
I contratti a termine valgono per l’anzianità 
Cassazione n. 262 del 12 gennaio 2015

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento affronta la problematica riguardante la sussistenza o meno di un diritto del dipendente -  ripetutamente assunto a termine dallo stesso datore di lavoro - di vedere riconosciuta – in ipotesi di dichiarazione giudiziale di illegittimità del termine e di conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato – l’anzianità di servizio maturata e i conseguenti diritti patrimoniali riconducibili ai relativi scatti.
Un tema sul quale, nel caso di specie, il tribunale non si era pronunziato e che la Corte d’appello aveva risolto ritenendo la pretesa in questione soddisfatta dall’indennità omnicomprensiva prevista dall’articolo 32, comma quinto, della legge 183/2010.
Nel cassare la pronunzia di secondo grado, la Cassazione ricorda che l’articolo 1, comma 13, della legge 92/2012 ha chiarito che detta norma «si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostruzione del rapporto di lavoro».
Per la Suprema 
Corte «l’indennità è volta al “risarcimento” del lavoratore. Quindi concerne un danno subito dal lavoratore e cioè un danno derivante dalla perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un danno da mancato lavoro».
Se così è, però, secondo i giudici di legittimità l’indennità prevista dall’ articolo 32 «non riguarda il periodo (in caso di un unico contratto a termine) o periodi di lavoro (in caso di più contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa effettuata».
Diretta conseguenza di questo principio, conclude la Corte, è non soltanto il diritto alla retribuzione, bensì anche a «che tale periodo o tali periodi siano computati ai fini della anzianità di servizio e, quindi, della maturazione degli scatti di anzianità»
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Niente licenziamento per la fruizione dell’alloggio aziendale nonostante la casa di proprietà
Cassazione n. 15 del 7 gennaio 2015

Con sentenza 15 del 7 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha affermato che risulta sproporzionato e, quindi, illegittimo il licenziamento intimato a un lavoratore, che usufruiva di un alloggio del datore di lavoro a condizioni estremamente vantaggiose, per non avere comunicato di essere, a sua volta, già proprietario di altri beni immobili. Il fatto materiale su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema corte si riferiva, in tal senso, ad un lavoratore che aveva sottaciuto la sua reale situazione abitativa allo scopo di continuare a beneficiare dell'alloggio messo a disposizione dal datore di lavoro per un irrisorio corrispettivo di euro 18,00 mensili.
In sede di giudizio era emerso, tra l’altro, che il lavoratore non aveva risposto alla lettera in cui gli si chiedeva di comunicare la propria situazione abitativa, disvelando in tal modo la propria consapevolezza circa il fatto che la concessione dell’alloggio datoriale a uso abitativo era sostanzialmente incompatibile con le proprietà immobiliari da lui detenute.
La Corte di cassazione valorizza e riconosce l’esistenza degli addebiti mossi in sede disciplinare al lavoratore e ne censura il comportamento contrario ai canoni della correttezza e buona fede, ma ritiene che, alla luce di un giudizio di proporzionalità sulla gravità dei fatti oggetto di contestazione, il licenziamento risulti eccessivo e, dunque, sproporzionato. In forza di tale assunto, la Suprema corte, facendo applicazione dell’articolo 18 della legge 300/1970, ha confermato la condanna del datore alla reintegrazione in servizio e al versamento di un indennizzo risarcitorio corrispondente alle retribuzioni perdute dal lavoratore a seguito del licenziamento.

Pregiudizio di uno sport all’attività lavorativa
Cassazione n. 144 del 9 gennaio 2015

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che, pur essendo da tempo asseritamente affetto da una patologia che ne aveva determinato la inidoneità sopravvenuta parziale alle mansioni e pur avendo ottenuto la ricollocazione in nuove mansioni compatibili con tale inidoneità, era stato scoperto a svolgere un’attività sportiva che comportava sforzi fisici decisamente incompatibili con l’inidoneità dichiarata e certificata.
In aggiunta è stato ribadito dalla Suprema corte, così come già statuito in primo e in secondo grado, che “l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 cod. civ., dovendo integrarsi con gli articoli 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro”.  Il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttivi di danno”. I giudici della Suprema Corte hanno rimarcato il fatto che la pratica di disciplina sportiva lesiva di una condizione di salute già di per sé compromessa, che ne limita la capacità di lavorare, per quanto effettuata al di fuori del rapporto di lavoro, pregiudica ulteriormente le condizioni fisiche e ne rende più improbabile un possibile miglioramento.

Qualificazione del rapporto di lavoro: la segretaria non è lavoratrice autonoma
Cassazione n. 618 del 15 gennaio 2015

In materia di qualificazione del rapporto di lavoro, la Corte di Cassazione ha ribadito i criteri generali utili al riconoscimento di una prestazione di lavoro subordinato, quali l’eterodirezione della prestazione lavorativa, l’inserimento nell’organizzazione aziendale, la continuità della prestazione stessa, il rispetto dell’orario di lavoro e la corresponsione di un compenso fisso e mensilizzato.
Nella Sentenza n. 618 del 15 gennaio 2015, richiamando i criteri sopra indicati, la Suprema Corte ha confermato la condanna inflitta dalla Corte territoriale all’azienda confermando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sin dall’origine, con la necessaria conseguenza di essere tenuta a versare le differenze retributive alla segretaria, che veniva retribuita previa emissione di parcella come una lavoratrice autonoma
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CED esclusi dalle gare d’appalto per l’affidamento di consulenza del lavoro
Consiglio di Stato, sentenza n. 103 del 16 gennaio 2015
Il Consiglio di Stato ha negato ai Centri di eleborazione dati (Ced) l’accesso alle gare d’appalto per l’affidamento di servizi di consulenza del lavoro che includono un’attività di contestualizzazione normativa che sottende a valutazioni di carattere tecnico-giuridico non espletabili in via automatica.
Il Collegio ha evidenziato come la consulenza del lavoro debba rientrare a pieno titolo fra le attività riservate ai Consulenti del Lavoro in base a quanto stabilito dall’articolo 1 della legge n. 12/1979.

Ci si riferisce, in particolare alle attività riguardanti:
– l’adeguamento delle buste paga a seguito di eventuali variazioni retributive e normative (il quale presuppone un’attività di contestualizzazione normativa cui sono sottese valutazioni di carattere tecnico – giuridico non espletabili in via automatica);
– l’assolvimento degli adempimenti presso gli enti pubblici territorialmente competenti coinvolti nella gestione dei rapporti di lavoro (es.: istituti previdenziali, assicurativi, Direzione Territoriale del Lavoro, Agenzia delle Entrate ecc.), mediante redazione, consegna, accesso presso gli uffici o invio telematico della documentazione dovuta all’ente pubblico competente da parte del Fornitore.
– la consulenza per l’amministrazione del personale con particolare riguardo a quelle da fornire in occasione di eventuali accertamenti ispettivi, garantendo la presenza di un consulente competente presso la Fondazione entro 24 ore dall’inoltro della richiesta” e “in occasione di vertenze di lavoro”.

E’ evidente che, in tutte le ipotesi richiamate, le attività richieste non si limitassero allo svolgimento delle operazioni di mero calcolo e stampa dei cedolini (nonché a quelle meramente strumentali ed accessorie) per le quali il quinto comma dell’articolo 1 della l. n. 12 del 1979 consente che la prestazione possa essere svolta da centri di elaborazione dati (è da ritenere, costituiti anche in forma di società commerciali) purché “assistiti” da un o più soggetti iscritti agli albi di cui al primo comma dell’articolo 1 della legge medesima.
Al contrario, lo svolgimento delle attività in parola presupponeva lo svolgimento di attività di carattere intellettuale implicanti l’acclarato possesso di specifiche cognizioni lavoristico-previdenziali (attività per il cui svolgimento opera la più volte richiamata riserva dell’iscrizione agli albi professionali di cui alla l. n. 12 del 1979).