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GiurisprudenzaScarica PDF
Inefficace il licenziamento per la chiusura del giornale senza la comunicazione al Cdr
Cassazione n. 13575 del 2 luglio 2015

In materia di licenziamento, la Corte di Cassazione ha ritenuto inefficace il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (la chiusura della testata), operato dall’azienda nei confronti di un giornalista in mancanza della necessaria comunicazione al comitato di redazione almeno 72 ore prima del fatto, come previsto dall’articolo 34 del CCNL di categoria.
Verificata la mancata comunicazione al Cdr, l’azienda ha sostenuto che la violazione della norma concretizzasse solo un’eventuale condotta antisindacale, ma i giudici della Corte Suprema, nella Sentenza n. 13575 del 2 luglio 2015, hanno letto il disposto contrattuale come adempimento obbligatorio da parte del direttore e dell’editore della testata, tanto più che è previsto anche un incontro con i sindacati nel caso di cessazione dell’attività di una testata al fine di verificare la possibilità di riassorbire i dipendenti licenziati. In mancanza di tali passaggi, quindi, la Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado, giudicando inefficace il licenziamento e disponendo il reintegro del lavoratore.

Licenziamento per il lavoratore trovato a fumare 
Cassazione n. 14481 del 10 luglio 2015

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, comminato ad un lavoratore che non aveva rispettato il divieto di fumare in una zona dell’azienda con alta potenzialità di rischio incendio. La gravità della condotta contestata al lavoratore era ancora più evidenziata dalla duplice circostanza della sua recidiva specifica (già in precedenza lo stesso lavoratore era stato trovato a fumare nello stabilimento) e della funzione di caporeparto svolta dallo stesso; elementi questi che provavano in modo evidente come al lavoratore non poteva non essere noto che il divieto di fumo era vigente in tutta l’azienda data la rilevata pericolosità di incendio ivi esistente, in considerazione della presenza di materiali facilmente infiammabili. Anche in virtù di tali circostanze, i giudici della Suprema Corte hanno evidenziato la fondatezza del provvedimento espulsivo, alla luce delle mansioni di caporeparto ricoperte dal lavoratore che avrebbe dovuto essere un esempio per gli altri colleghi, soprattutto in un luogo estremamente pericoloso dell’azienda, tanto più che nel suddetto ruolo il dipendente aveva anche il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le norme contrattuali, compreso il divieto di fumo (compito nel cui esercizio egli in precedenza aveva segnalato alla direzione un collega trasgressore, che poi era stato sanzionato dalla datrice di lavoro).

Licenziamento nullo della gestante anche se poi abortisce
Cassazione n. 14723 del 14 luglio 2015

Il divieto di licenziamento previsto dal D.lgs. 151/2001 nei confronti delle lavoratrici gestanti vale solo per il periodo di gestazione e non si estende al periodo successivo una eventuale interruzione volontaria di gravidanza, intervenuta entro il 180° giorno. Ad ogni modo l'equiparazione dell'aborto alla malattia è una disposizione dettata a tutela della lavoratrice che non può essere utilizzata contro la stessa per fondare un ipotetico superamento del periodo di comporto.
Così ha statuito la Suprema Corte con la sentenza n. 14723 del 14 luglio scorso, confermando la nullità del licenziamento inflitto a una lavoratrice mentre la sua gravidanza era ancora in corso, anche se poi la donna aveva interrotto la gravidanza entro il 180° giorno dal suo inizio.
Secondo i Giudici, il legislatore non ha dettato apposite norme in deroga alla disciplina del divieto di licenziamento, dettata dall'art. 54 del D.lgs. 151/2001, per il caso di interruzione di gravidanza entro il 180° giorno, reputando (implicitamente) che il divieto di licenziamento per il periodo di gravidanza (e dunque solo finché la gravidanza stessa non si sia interrotta) costituisca sufficiente tutela per la lavoratrice così come, sempre a tutela della stessa, ha previsto l'equiparazione della malattia all'interruzione di gravidanza.
Circa tale equiparazione, tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che l'articolo 19 del D.lgs. 151/2001, secondo cui l'interruzione della gravidanza deve essere equiparata alla malattia, non può costituire una fonte di deroga alla previsione di nullità del licenziamento, poiché trattasi di una disposizione dettata a esclusiva tutela della lavoratrice che, in quanto tale, non può essere utilizzata contro di lei mediante l'utilizzo improprio del recesso per superamento del periodo di comporto.



Legittimo il licenziamento di Rsu che fa la spesa durante i permessi sindacali
Tribunale di Belluno 1° luglio 2015

Il datore di lavoro può verificare ex post se le RSU abbiano effettivamente rispettato la destinazione dei permessi sindacali prevista dalla legge, ossia se ne abbiano fatto utilizzo "per l'espletamento del loro mandato"; il controllo, che può avvenire anche a mezzo di agenzia investigativa privata, può condurre al licenziamento del beneficiario se quest'ultimo, abusando del proprio diritto, abbia fruito del permesso per finalità prettamente personali.
Pertanto secondo i Giudici del tribunale Bellunese è da ritenersi legittimo il licenziamento in quanto "soltanto per lo svolgimento di attività sindacale sussisteva il diritto ad usufruire del permesso retribuito", evidentemente ritenendo il sorgere del diritto di cui all'art. 23 St. lav. "incorporato" alla sua funzionalizzazione ad un'attività ritenuta meritevole la cui elusione è idonea a costituire una condotta abusiva particolarmente riprovevole perché tendente a scaricare i relativi costi sulla collettività.