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Per la Cassazione, non si può dire che "la creazione del falso profilo facebook costituisca, di per sè, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro (Statuto dei lavoratori legge 300/70), attenendo ad una mera modalità di accertamento dell'illecito commesso dal lavoratore, non invasiva nè induttiva all'infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito". E’ considerato ammissibile dalla Corte, quindi, un controllo difensivo “occulto” sul lavoratore, purché si tratti di un’attività diretta ad accertare comportamenti illeciti diversi dal puro adempimento della prestazione lavorativa. Resta fermo il fatto che le modalità di accertamento non devono risultare eccessivamente invasive, devono rispettare la libertà e la dignità del lavoratore e non devono ledere i generali canoni di correttezza e buona fede contrattuale. Nel caso concreto i giudici hanno ritenuto che i controlli del datore non avessero ad oggetto l'esatto adempimento della prestazione lavorativa, ma il ripetersi comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati (ed idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sicurezza e del regolare funzionamento). Così la creazione del falso profilo facebook diventa solo una modalità non invasiva per accertare l’illecito.
La
Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 32697 del 27 luglio 2015, ha
ribadito l’illiceità dell’appalto laddove sia
l’azienda che riceve i lavoratori ad esercitare il potere
direttivo, di coordinamento e di controllo sugli stessi, configurando
nel caso in specie il reato di somministrazione non autorizzata di
personale, di cui all’articolo 18 del D.Lgs n. 276/2003.
I giudici della Corte Suprema hanno infatti ricordato che la differenza
tra l’appalto e la somministrazione di manodopera non risiede
solamente nella proprietà dei fattori di produzione, ma anche in
una reale verifica dell’organizzazione dei mezzi stessi e
dell’assunzione del rischio d’impresa, in assenza dei quali
si è in presenza di una mera fornitura di manodopera che,
qualora sia posta in atto da un’azienda non autorizzata ai sensi
dell’articolo 4 e seguenti del medesimo decreto, porta al reato
di cui in precedenza.
In
materia di licenziamento, la Corte di Cassazione ha ribadito che nel
caso di superamento del periodo di comporto per malattia da parte del
lavoratore, la tempestività dell’atto di licenziamento
posto in essere dall’azienda va valutata in rapporto agli
interessi aziendali, in particolar modo in ragione della dimensione e
della complessità dell’azienda, non essendo quantificabile
a priori in un dato fisso, cronologico e predeterminato e, in ogni
caso, l’applicazione di un provvedimento non tempestivo non
è indice del fatto che l’azienda intende rinunciare al
diritto di recesso.
Nella Sentenza n. 16267/2015, i giudici della Corte Suprema hanno
confermato la legittimità del licenziamento per superamento del
periodo di comporto operato da un’azienda nei confronti di una
lavoratrice, nell’ambito di un periodo d’inerzia pari a due
mesi e mezzo, in un contesto nel quale le dimensioni della
Società non consentivano un’immediata percezione della
situazione contabile relativa alla sommatoria dell’assenza per
ogni posizione.
La
Cassazione ha affermato la illegittimità di un licenziamento
comminato per “scarso rendimento”, essendo il medesimo
dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze per malattia.
L’ipotesi dello scarso rendimento è diversa e separata da quella delle ripetute assenze per malattia.
Tali separate previsioni hanno indotto la prevalente giurisprudenza di
questa S.C. a ritenere che ai fini dell’esonero definitivo dal
servizio, prevedendo l’ipotesi dello scarso rendimento come
diversa e separata da quella concernente la malattia che determini
inabilità al servizio, impedisce che, in sede di valutazione del
comportamento del lavoratore riconducibile a detta ipotesi, possa
tenersi conto, oltre che delle diminuzioni di rendimento determinate da
imperizia, incapacità, negligenza, anche di quelle determinate
da assenze per malattia.
Inoltre, mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa
dei lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute
a malattia.
I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come lo scarso
rendimento debba avere parametri scollegati dalla malattia, per la
quale è possibile risolvere il rapporto di lavoro esclusivamente
qualora si superi il periodo di comporto.
E poiché è stato intimato per scarso rendimento dovuto
essenzialmente al l’elevato numero di assenze, ma non tali da
esaurire il periodo di comporto, il recesso in oggetto si rivela
ingiustificato.