Arlati Ghislandi
newsletter
DICEMBRE 2016
Arlati Ghislandi
Studio Arlati Ghislandi
Milano - corso G. Matteotti, 7
tel. +39 0254118656
Roma - piazza G. Mazzini, 27
tel. +39 0698386285

studio@arlatighislandi.it
www.arlatighislandi.it
blog.arlatighislandi.it
GiurisprudenzaScarica PDF
Tempo tuta retribuito solo se previsto da direttive aziendali
Corte di Cassazione, sentenza n. 23123 del 14 novembre 2016

Con la pronuncia n. 23123 del 14 novembre 2016, la Corte di Cassazione fornisce delle precisazioni in merito alla possibilità di far rientrare nell’orario di lavoro il tempo di vestizione e di svestizione.
In particolare è stato precisato che il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da un’etero direzione. In difetto di direttive specifiche in tal senso l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo.
Nel caso di specie la Corte territoriale si era attenuta ai principi sopra esposti, avendo verificato che il dipendente, infermiere professionale, prima di accedere al turno di servizio era tenuto ad indossare la divisa (nei locali a ciò destinati in prossimità dell’unità operativa di assegnazione all’interno dell’area ospedaliera) che poi doveva dismettere a fine turno lasciandola per il lavaggio nei cesti allo scopo collocati in azienda. Non era, inoltre, stata offerta la prova che al lavoratore fosse richiesto di entrare in anticipo rispetto al turno di servizio ed uscire con ritardo rispetto alla scadenza del turno stesso per potere indossare gli abiti da lavoro.

Licenziamento collettivo per cessazione dell’attività aziendale: obblighi di comunicazione  
Corte di Cassazione, sentenza n. 23736 del 22 novembre 2016 

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23736 del 22 novembre 2016, ha confermato che la scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall'articolo 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, articolo 4, applicabili per effetto dell'articolo 24 della stessa legge, ed in particolare l'obbligo di comunicazione dei motivi della scelta, hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima. Ciò con la finalità di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell'attività dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo.

Computo del periodo di comporto e licenziamento  
Corte di Cassazione, sentenza n. 24027 del 24 novembre 2016

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24027 del 24 novembre 2016, ha ribadito un principio di diritto consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui è necessario tener conto, ai fini del calcolo del comporto, dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell'episodio morboso.
Detta presunzione di continuità opera sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all'ultimo giorno lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).
La prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio.

Licenziamento disciplinare per rifiuto di lavorare in un nuovo reparto 
Corte di Cassazione, sentenza n. 24455 del 30 novembre 2016

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 30 novembre 2016, n. 24455, ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento disciplinare causato dal rifiuto del dipendente di prestare la propria attività lavorativa in un diverso reparto senza preavviso.
Nella sentenza la Corte richiama il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l'inadempimento deve risultare “di non scarsa importanza”. In ragione di tanto, la massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o, comunque, di una violazione tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
Nella fattispecie esaminata dalla corte, il dipendente non aveva osservato l'ordine datoriale di prestare la propria attività lavorativa presso il reparto "evaporazioni", piuttosto che presso il reparto "stampaggi" al quale era in precedenza addetto.

Il lavoratore deve provare il danno da contestazione non tempestiva  
Corte di Cassazione, sentenza n. 24796 del 5 dicembre 2016

Con la sentenza n. 24796 del 5 dicembre 2016, la Corte di Cassazione ha fornito delle precisazioni in merito all’obbligo di tempestività nell’irrogazione di un licenziamento disciplinare, ex art. 7 L. 300/70.
In particolare, la Corte ha precisato che, in casi di contestazione tardiva, qualora il lavoratore non deduca alcun concreto pregiudizio all'esercizio del proprio diritto di difesa, deve escludersi la violazione della garanzia prevista dal suddetto articolo.
Il principio dell'immediatezza della contestazione, infatti, ha la finalità, da un lato, di assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, in modo tale da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede.

Nozione di trasferimento d’azienda: precisazioni  
Corte di Cassazione, sentenza n. 24972 del 6 dicembre 2016

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24972 del 6 dicembre 2016, ha fornito importanti chiarimenti sulla nozione di trasferimento d’azienda ex art. 2112 cod civ.
Secondo la suprema Corte l’ipotesi in cui il complesso organizzato dei beni dell'impresa sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica, senza un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione, è qualificabile come trasferimento d’azienda. Ciò purché vi sia un passaggio di beni di non trascurabile entità e tali da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.
Nella sentenza in esame viene, inoltre, precisato che se un'azienda può comprendere anche beni immateriali, nondimeno è ben difficile che possa ridursi solo ad essi, giacché la stessa nozione di azienda contenuta nell'articolo 2555 c.c., evoca pur sempre la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell'esercizio dell'impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità o mancanti del tutto, giacché organizzare significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale, beni naturali e lavoro) e non uno solo.
E’ stato altresì dato atto dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui nella nozione di trasferimento d’azienda può rientrare anche la cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.
Non costituisce trasferimento d'azienda ex articolo 2112 c.c., invece, la mera assunzione dei lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore (in esecuzione d'una cd. clausola sociale prevista dalla contrattazione collettiva o dalla legge), ostandovi l'esplicito contrario disposto del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 29, comma 3, (secondo cui "L'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda"). Secondo la Corte, la norma va intesa nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d'azienda ove non si accompagni alla cessione dell'azienda o di un suo ramo autonomo.
Resta fermo che se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro è nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l'azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall'articolo 2112 c.c. (pena un'ingiustificata aporia nell'ordinamento).