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Assistenza del familiare in condizione di handicap grave e diritto al trasferimento
Corte di Cassazione, ordinanza n. 6150 del 1 marzo 2019
La
Corte di Cassazione, con ordinanza del 1 marzo 2019, n. 6150, è
intervenuta nel giudizio riguardante il caso di un lavoratore
dipendente che ha richiesto al proprio datore di lavoro il
trasferimento presso una sede più vicina al domicilio della
sorella, avendo la stessa necessità di assistenza in quanto in
condizione di handicap grave. A fronte della richiesta l’azienda
ha negato il trasferimento al proprio dipendente basandosi –
erroneamente – sul presupposto che quanto disposto dall’
art. 33 della L. 104/1992 potesse trovare applicazione solo
nell’ipotesi di prima scelta del posto di lavoro e non anche in
caso di successivo trasferimento.
La Corte di Cassazione, confermando l’orientamento del giudice
del secondo grado di giudizio, ha sancito che in base all’art. 33
L. 104/1992 il dipendente che assiste con continuità un parente
o un affine entro il terzo grado in stato di handicap grave ha il
diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più
vicina al proprio domicilio. Tale facoltà è esercitabile
dal dipendente non solo all’inizio del rapporto di lavoro
mediante la scelta della sede ove verrà svolta
l’attività lavorativa, ma anche nel corso del rapporto di
lavoro mediante domanda di trasferimento. La ratio della norma è
infatti quella di favorire l’assistenza al parente o affine
affetto da handicap grave, essendo irrilevante, a tal fine, il momento
in cui sorge l’esigenza di assistenza: sia esso sorto nel corso
del rapporto di lavoro o sia già attuale all’epoca
dell’inizio del rapporto stesso.
Diritto all’indennità INAIL anche nel caso di infortunio dovuto ad imprudenza del lavoratore
Corte di Cassazione, ordinanza n. 7649 del 19 marzo 2019
La
Corte di Cassazione, con ordinanza 19 marzo 2019, n. 7649, ha affermato
che il lavoratore dipendente ha diritto a vedersi risarcito il danno
conseguente all’infortunio ogni volta che lo stesso è
avvenuto in occasione del lavoro.
La Suprema Corte ha specificato che ai fini della comprensione della
locuzione “in occasione del lavoro” devono essere
considerati tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili,
inerenti all'ambiente, alle macchine, alle persone, al comportamento
dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di
svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali,
con l'unico limite del rischio elettivo che delimita l’ambito
della tutela assicurativa. Il rischio elettivo si verifica infatti in
presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed
estraneo alle finalità produttive, posto in essere dal
prestatore al fine di soddisfare impulsi meramente personali, con
conseguente elisione del nesso di derivazione dell’infortunio con
lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Nel caso esaminato dalla Corte il lavoratore si è infortunato
nel corso di un’ispezione, per lo svolgimento della quale non
aveva seguito il percorso abituale ma si era introdotto in un cantiere
terzo rispetto all’organizzazione aziendale. Secondo la Corte di
Cassazione tale comportamento colposo del lavoratore può ridurre
o esimere, se esclusiva, la responsabilità del datore di lavoro
escludendo il diritto dell'infortunato al risarcimento del danno nei
confronti del datore di lavoro e, di conseguenza, il diritto dell'INAIL
di esercitare l'azione di regresso nei confronti dell’azienda.
Tuttavia, esso non comporta di per sé l'esclusione
dell'operatività dell'indennizzo sociale previsto
dall'assicurazione INAIL, posto che la stessa ha la finalità
prevista dagli artt. 32 e 38 della Cost. di proteggere il lavoratore da
ogni infortunio sul lavoro - anche da quelli derivanti da colpa - e di
garantirgli i mezzi adeguati allo stato di bisogno discendente dalle
conseguenze che ne sono derivate.
Contratto collettivo di lavoro e sanzioni disciplinari
Corte di Cassazione ordinanza n. 8582 del 27 marzo 2019
La
Corte di Cassazione, con ordinanza 27 marzo 2019, n. 8582 è
intervenuta seguito delle sentenze del tribunale di Verona e della
corte d’appello di Venezia che hanno dichiarato
l’illegittimità del licenziamento intimato ad un
lavoratore per essersi messo alla guida di un mezzo aziendale in stato
di ebbrezza con un tasso alcolico tale da costituire reato.
Nei primi due gradi di giudizio l’illegittimità del
licenziamento è stata dichiarata in quanto veniva attribuita
rilevanza disciplinare alla sola guida in stato di ebbrezza che, ai
sensi del contratto collettivo applicato, viene punita con una mera
sanzione conservativa.
Ribaltando l’orientamento dei primi due gradi di giudizio la
Suprema Corte ha rivelato come la condotta accertata posta in essere
dal dipendente non potesse essere riconducibile alla sola ipotesi
disciplinata dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro,
in quanto nel caso esaminato non era stata contestata e addebitata al
dipendente la sola guida in stato di ebbrezza, ma “piuttosto la
guida di un mezzo aziendale con un tasso alcolemico pari a 2,32 g/l,
condotta costituente reato ed oggetto, infatti, di decreto penale di
condanna”, condotta quindi più grave rispetto a quello
individuato dalla norma del contratto collettivo.
La Corte ha colto inoltre l’occasione per ribadire che il
procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella
astratta tipizzata dalle parti collettive postula l'integrale
coincidenza tra la fattispecie
contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando,
per contro, impossibile procedere ad una tale operazione quando la
condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi
estranei (ed aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale, come
nell'ipotesi analizzata.
Rifiuto di eseguire l’attività lavorativa per insufficienza delle misure di prevenzione
Corte di Cassazione, sentenza n. 8911 del 29 marzo 2019
La
Corte di Cassazione con sentenza 29 marzo 2019 n. 8911 si è
espressa in merito al rifiuto del dipendente di svolgere la prestazione
lavorativa a fronte della mancata applicazione da parte del datore di
lavoro delle misure di sicurezza. Nello specifico la Suprema Corte ha
specificato che il rifiuto si configura come legittimo se il lavoratore
è in grado di provare la gravità e la rilevanza
dell’inadempimento datoriale qualora la violazione non riguardi
precauzioni espressamente previste dalla legge o riguardi obblighi
generali previsti dall’art. 2087 c.c.
Nel caso di specie un macchinista è stato licenziato per essersi
più volte rifiutato di condurre un treno in assenza della
presenza in cabina di un secondo conducente abilitato.
In primo grado il tribunale di Genova annullava il licenziamento
ritenendo legittimo il comportamento del lavoratore e tale orientamento
veniva confermato anche nel secondo grado di giudizio. La Suprema Corte
ha invece ribaltato tale impostazione pur confermando che in tema di
sicurezza sul lavoro la responsabilità che grava
sull’azienda è di natura contrattuale. Tale
responsabilità implica a carico del datore di lavoro
l’obbligo di creare un ambiente idoneo a tutelare la salute e la
sicurezza che, se inadempiuto, comporta la possibilità per il
dipendente di rifiutarsi di svolgere la propria prestazione lavorativa.
La responsabilità dell’azienda non deve però essere
intesa in senso oggettivo, avendo il dipendente l’onere di
provare un difetto di diligenza in capo al datore di lavoro. Tale onere
ha declinazioni diverse a seconda che si tratti di misure espressamente
previste dalla legge, per cui il lavoratore è tenuto solamente a
provare l’esistenza della violazione o il nesso causale con il
danno alla salute, o ricavabili in via interpretativa dal generico
obbligo di sicurezza, per le quali è sufficiente per il datore
di lavoro dimostrare di aver adottato misure di prevenzioni coerenti
con gli standard di sicurezza desumibili dalle conoscenze tecniche e
sperimentali esistenti. Per queste ultime misure non è possibile
pretendere che l’azienda rispetti qualsiasi cautela possibile
volta ad evitare qualunque danno, dovendo l’azienda avere cura di
adottare le misure idonee alla prevenzione di eventi prevedibili in
relazione alle mansioni svolte.
Pace fiscale solo per le controversie aventi ad oggetto atti impositivi
Corte di
Cassazione, sentenza n. 7099 del 13 marzo 2019
La
Corte di Cassazione, con sentenza 13 marzo 2019, n. 7099 è
intervenuta in merito ad una controversia concernente l'impugnazione da
parte di un contribuente di una cartella di pagamento per vizi propri,
emessa ai sensi dell'art. 36 bis DPR 600/1973 a seguito di omesso o
carente versamento dell’IRPEF, che, come precisato dalla Suprema
Corte, non rientra tra quelle passibili di definizione agevolata.
Difatti tale cartella non poteva ritenersi atto impositivo, derivando
da una mera liquidazione dei tributi già esposti dal
contribuente. Quest’ultimo, nel caso di specie, aveva presentato
istanza ai sensi del comma 10, art. 6 DL 119/2018, che prevede la
possibilità per il contribuente di chiedere la sospensione del
processo sino al 10 giugno 2019 facendone apposita richiesta al giudice
e dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni dello stesso
articolo.
In particolare, il primo comma dell'articolo prevede testualmente che
possono essere definite in via agevolata le controversie attribuite
alla giurisdizione tributaria in cui è parte l'Agenzia delle
Entrate, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e
grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di
rinvio.
Nel caso in esame, l'oggetto della controversia era l'impugnazione di
una cartella di pagamento, emessa ai sensi dell'art. 36 bis DPR
600/1973 e impugnata solo per vizi propri. Tale cartella, non impugnata
peraltro nel merito della pretesa erariale e non potendosi ritenere
atto impositivo in quanto derivante da una mera liquidazione dei
tributi già esposti dal contribuente, non può pertanto
essere considerata oggetto di una controversia passibile di definizione
agevolata.
Ritenute operate e non versate: responsabilità solidale
Corte di
Cassazione, sentenza n. 10378 del 12 aprile 2019
La
Corte di Cassazione, con sentenza del 12 aprile 2019 n. 10378, ha
affermato che nel caso in cui il sostituto d’imposta non versi le
ritenute operate, il sostituito non può essere considerato come
responsabile in solido ex art. 35 DPR 602/1973, in quanto tale tipo di
responsabilità è espressamente subordinata oltre che
all’omesso versamento, anche all’omessa effettuazione delle
ritenute.
Nel caso di specie, a seguito di un controllo formale è stata
notificata ad un contribuente una cartella di pagamento con la quale
venivano richieste le somme corrispondenti a quelle che il sostituto
d’imposta non aveva versato, pur avendo effettuato la ritenuta
d’acconto.
A riguardo deve essere evidenziato che la concreta fattispecie, come
appena identificata, è sempre stata risolta dalla Corte nel
senso della esistenza della solidarietà tra sostituto e
sostituito (Cass. sez. VI-T n. 12076 cit.; Cass. sez. VI-T n. 9933
cit.; Cass. sez. trib. n. 14033 cit.); la soluzione è stata
tradizionalmente fondata sul presupposto che l’obbligazione del
versamento dell’acconto fosse unica, sia per il sostituto, sia
per il sostituito e che, alla stessa, fosse perciò “in
origine” tenuto in via solidale anche il sostituito, in
applicazione dell’art. 1294 c.c.. Tale orientamento non è
però stato condiviso dalle Sezioni Unite in quanto la
sostituzione e la solidarietà d’imposta costituiscono
istituti distinti, come anche confermato da quanto previsto
dall’art. 64 DPR 600/1973 il quale, prescrivendo che il sostituto
ha facoltà di intervenire nel procedimento di accertamento
dell’imposta, dimostra che il soggetto passivo dell’imposta
rimane il sostituito, posto che al sostituto è riconosciuta una
eccezionale facoltà di intervenire nel processo: di qui la
fondamentale illazione per cui il dovere di versamento della ritenuta
d’acconto costituisce un’obbligazione autonoma, rispetto
all’imposta; un’obbligazione che la legge ha posto
solamente a carico del sostituto, a mezzo degli artt. 23 ss. DPR
600/1973 e che trova la sua causa nel corrispondente obbligo di rivalsa
stabilito dall’art. 64 DPR 600/1973.
Quest’ultima lettura, concludono le Sezioni Unite, appare
coerente con l’art. 35 DPR 602/1973, che prevede la
solidarietà soltanto quando il sostituto non abbia versato
l’acconto, con ciò chiaramente escludendo che fuori
dell’ipotesi di inadempimento del sostituto, il sostituito possa
in via solidale essere tenuto al pagamento dell’acconto
d’imposta, in quanto l’obbligo di pagamento di
quest’ultima è posto solo a carico del sostituto. Difatti
il sostituito ha il contrapposto diritto allo scomputo delle ritenute
operate dal sostituto ex art. 22 DPR 917/1986, mentre risulterebbe
contraddittorio riconoscere tale diritto e assoggettare
contemporaneamente il sostituito in via solidale alla riscossione delle
somme scomputate.
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