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Repechage solo per un posto fisso 
Tribunale di Roma 27 ottobre 2014

L’obbligo di repechage del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo non è violato per effetto di un’assunzione a termine operata un mese prima del licenziamento.
Nel caso esaminato dal Tribunale, una lavoratrice era stata licenziata per soppressione della posizione lavorativa conseguente all'esternalizzazione del servizio svolto dall'ufficio nel quale era inserita.
Quest'ultima decisione organizzativa, si osserva preliminarmente nell'ordinanza, costituisce una scelta insindacabile da parte del giudice, che deve limitarsi ad accertarne l'effettività. Una volta effettuato tale accertamento con esito positivo, va verificata la possibilità di utilizzo del lavoratore su posizioni alternative. Solo in caso di impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore può infatti ritenersi integrato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. La prova di tale impossibilità, della quale è onerato il datore di lavoro, si traduce concretamente nella verifica delle assunzioni eventualmente effettuate in epoca precedente e successiva al licenziamento. Ciò in quanto un'assunzione a ridosso del licenziamento può essere rivelatrice della necessità di ricoprire una posizione lavorativa che avrebbe potuto essere offerta al lavoratore destinatario del provvedimento di recesso, in alternativa al medesimo. Un primo tema che si pone al riguardo è se le mansioni alternative che il datore di lavoro ha l'obbligo di proporre siano solo quelle equivalenti in senso stretto, che comportano l'inquadramento nel medesimo livello del contratto collettivo. Il Tribunale di Roma, mentre esclude la rilevanza delle assunzioni per mansioni superiori, aderisce a quell'orientamento che afferma l'obbligo del datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, di offrire al lavoratore anche la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.
Non avendo rinvenuto, nel caso concreto, assunzioni per mansioni equivalenti o inferiori in epoca successiva al licenziamento, il Tribunale si focalizza su alcune assunzioni antecedenti. Alcune di esse vengono considerate irrilevanti in quanto, in relazione alla concreta situazione aziendale, risalenti a tempi definiti «non sospetti», nei quali cioè la decisione organizzativa che aveva portato alla soppressione della posizione lavorativa del lavoratore licenziato non era evidentemente all'ordine del giorno. Risulta invece che alcune posizioni lavorative erano state ricoperte con assunzioni effettuate solo un mese prima del licenziamento. Una simile distanza temporale dal recesso, afferma il Tribunale, fa legittimamente presumere la concomitanza dell'esigenza di ricoprire alcune posizioni lavorative e della soppressione del posto di lavoro del lavoratore poi licenziato. Con la conseguenza che tali diverse posizioni avrebbero dovuto essere offerte, in alternativa al licenziamento, al lavoratore destinatario del medesimo. Ma ciò solo nel caso in cui si fosse trattato di assunzioni a tempo indeterminato.
E qui sta l'affermazione più interessante del Tribunale di Roma. Lo strumento contrattuale scelto per ricoprire le diverse posizioni lavorative in questione è stato quello del contratto a tempo determinato, il che esclude l'obbligo del datore di lavoro di proporlo al lavoratore come valida alternativa al licenziamento. Nessuna violazione quindi dell'obbligo di repêchage qualora le posizioni di lavoro alternative in azienda siano disponibili solo a termine.

Ripetibile il periodo di prova
Cassazione n. 23381 del 3 novembre 2014
La Corte di cassazione ha stabilito che è ammissibile la previsione di un nuovo patto di prova nell'ambito di un secondo contratto di lavoro stipulato tra le stesse parti per lo svolgimento delle medesime mansioni, laddove la previsione probatoria sia intervenuta per soddisfare esigenze di valutazione più complessive sulle attitudini personali e non solo professionali del lavoratore in rapporto al carattere definitivo delle responsabilità a lui attribuite.
La Cassazione afferma, in altri termini, che la previsione di un secondo periodo di prova non può essere ritenuta illegittima in assoluto a fronte di un precedente rapporto di lavoro intercorso tra le parti e per cui si era già consumato un periodo di prova iniziale, ma che si tratta di verificare se ricorrono specifiche condizioni che, in rapporto al contenuto delle responsabilità assegnate al lavoratore con il nuovo contratto di lavoro, giustifichino una nuova e più meditata valutazione delle attitudini personali e le qualità professionali del dipendente.
La Cassazione ha ribadito, rifacendosi a un proprio precedente insegnamento, che la ripetizione di un patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti risulta ammissibile se sono intervenuti, nel tempo, fattori ulteriori che non attengono solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita e alle condizioni personali o di salute del lavoratore. La sentenza 23381 perviene a questa conclusione sulla scorta del principio per cui la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell'interesse comune delle due parti a poter verificare la reciproca convenienza alla prosecuzione del contratto.
Sanzione penale per la mancata valutazione del rischio rumore in azienda
Cassazione n. 45919 del 6 novembre 2014

Secondo la Corte di Cassazione l’amministratore dell’impresa che, operando con macchinari che producono forti emissioni sonore, non effettua la valutazione del rischio rumore durante il lavoro, è responsabile penalmente.
Nello specifico la Suprema Corte, ha chiarito che il datore di lavoro deve obbligatoriamente provvedere a tale valutazione con redazione di apposito rapporto da tenere a disposizione degli ispettori, a nulla rilevando il fatto che non sia stato mai superato il limite di decibel consentito per legge.

Contributo di ingresso alla mobilità – eccezioni nel versamento
Cassazione n. 23984 del 11 novembre 2014

Con la sentenza in commento la Cassazione ha affermato che l’art. 3, comma 3, della legge n. 223/1991, relativa alle procedure concorsuali, è la sola eccezione alla regola generale che impone alle imprese che aprono la procedura di mobilità e, successivamente, collocano in mobilità alcuni lavoratori, di pagare il contributo di ingresso, non essendo possibile una interpretazione estensiva della norma (nel caso di specie la Corte di Appello di Palermo aveva esonerato dal pagamento un imprenditore che, a seguito del sequestro dello stabilimento per inquinamento ambientale, aveva licenziato tutti i dipendenti che prestavano la loro attività’ in quella unità produttiva).
Va precisato che sull’argomento relativo al contributo di ingresso alla mobilità, per effetto dell’art. 16 della legge n. 161/2014 (data di entrata in vigore il 25 novembre 2014), il contributo di ingresso alla mobilità non si pagherà anche per il personale con qualifica dirigenziale interessato da una procedura collettiva di riduzione di personale.