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Con la sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016, la
Corte di Cassazione, superando un orientamento giurisprudenziale in
senso contrario, sancisce il principio di legittimità
secondo cui è da considerarsi valido il licenziamento
intimato per incrementare il profitto o per una più
efficiente gestione dell’azienda.
In applicazione di tale principio, ai fini della legittimità
del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo
oggettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 3, l'andamento
economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale
che il datore di lavoro debba necessariamente provare (ed il giudice
accertare), essendo sufficiente che le ragioni inerenti
all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro
determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo
attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa. In
particolare tra tali ragioni rientrano anche quelle dirette ad una
migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della
redditività dell'impresa.
Ove, però, il licenziamento sia stato motivato richiamando
l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a
spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che
la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare
ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di
veridicità e sulla pretestuosità della causale
addotta dall'imprenditore.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23736 del 22 novembre 2016, ha confermato che la scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall'articolo 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, articolo 4, applicabili per effetto dell'articolo 24 della stessa legge, ed in particolare l'obbligo di comunicazione dei motivi della scelta, hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima. Ciò con la finalità di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell'attività dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo.
Con la pronuncia n. 23123 del 14 novembre 2016, la
Corte di Cassazione fornisce delle precisazioni in merito alla
possibilità di far rientrare nell’orario di lavoro
il tempo di vestizione e di svestizione.
In particolare è stato precisato che il tempo necessario a
indossare l’abbigliamento di servizio costituisce tempo di
lavoro soltanto ove qualificato da un’etero direzione. In
difetto di direttive specifiche in tal senso
l’attività di vestizione rientra nella diligenza
preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del
lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo.
Nel caso di specie la Corte territoriale si era attenuta ai principi
sopra esposti, avendo verificato che il dipendente, infermiere
professionale, prima di accedere al turno di servizio era tenuto ad
indossare la divisa (nei locali a ciò destinati in
prossimità dell’unità operativa di
assegnazione all’interno dell’area ospedaliera) che
poi doveva dismettere a fine turno lasciandola per il lavaggio nei
cesti allo scopo collocati in azienda. Non era, inoltre, stata offerta
la prova che al lavoratore fosse richiesto di entrare in anticipo
rispetto al turno di servizio ed uscire con ritardo rispetto alla
scadenza del turno stesso per potere indossare gli abiti da lavoro.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24027 del 24 novembre 2016,
ha ribadito un principio di diritto consolidato nella giurisprudenza di
legittimità secondo cui è necessario tener conto, ai fini
del calcolo del comporto, dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo
di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità
dell'episodio morboso.
Detta presunzione di continuità opera sia per le
festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo
della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in
sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all'ultimo giorno
lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al
venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno
lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).
La prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità
può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta
ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in
servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del
rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore
può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel
periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio.
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro,
con sentenza 30 novembre
2016, n. 24455,
ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento
disciplinare causato dal rifiuto del dipendente di prestare la propria
attività lavorativa in un diverso reparto senza preavviso.
Nella sentenza la Corte richiama il consolidato principio
giurisprudenziale secondo cui, in tema di licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di
proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito
commesso si sostanzia nella valutazione della gravità
dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto
rapporto, e l'inadempimento deve risultare “di non scarsa
importanza”. In ragione di tanto, la massima sanzione
disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali o, comunque, di una
violazione tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria
del rapporto.
Nella fattispecie esaminata dalla corte, il dipendente non aveva
osservato l'ordine datoriale di prestare la propria attività
lavorativa presso il reparto "evaporazioni", piuttosto che presso il
reparto "stampaggi" al quale era in precedenza addetto.
Con la sentenza n. 24796 del 5 dicembre 2016,
la Corte di Cassazione ha fornito delle precisazioni in merito
all’obbligo di tempestività
nell’irrogazione di un
licenziamento disciplinare, ex art. 7 L. 300/70.
In particolare, la Corte ha precisato che, in casi di contestazione
tardiva, qualora il lavoratore non deduca alcun concreto pregiudizio
all'esercizio del proprio diritto di difesa, deve escludersi la
violazione della garanzia prevista dal suddetto articolo.
Il principio dell'immediatezza della contestazione, infatti, ha la
finalità, da un lato, di assicurare al lavoratore incolpato
il
diritto di difesa nella sua effettività, in modo tale da
consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter
contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti,
e,
dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il
legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere
facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui
esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in
conformità
ai canoni della buona fede.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24972 del 6 dicembre 2016, ha
fornito importanti chiarimenti sulla nozione di trasferimento
d’azienda ex art. 2112 cod civ.
Secondo la suprema Corte l’ipotesi in cui il complesso
organizzato dei beni dell'impresa sia passato ad un diverso titolare in
forza di una vicenda giuridica, senza un rapporto contrattuale diretto
tra l'imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione,
è qualificabile come trasferimento d’azienda.
Ciò
purché vi sia un passaggio di beni di non trascurabile
entità e tali da rendere possibile lo svolgimento di una
specifica impresa.
Nella sentenza in esame viene, inoltre, precisato che se un'azienda
può comprendere anche beni immateriali, nondimeno
è ben
difficile che possa ridursi solo ad essi, giacché la stessa
nozione di azienda contenuta nell'articolo 2555 c.c., evoca pur sempre
la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in
funzione dell'esercizio dell'impresa, organizzazione di fatto
impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile
entità o mancanti del tutto, giacché organizzare
significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale,
beni naturali e lavoro) e non uno solo.
E’ stato altresì dato atto
dell’orientamento
giurisprudenziale secondo cui nella nozione di trasferimento
d’azienda può rientrare anche la cessione avente
ad
oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed
organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia
assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.
Non costituisce trasferimento d'azienda ex articolo 2112 c.c., invece,
la mera assunzione dei lavoratori in caso di cambio di soggetto
appaltatore (in esecuzione d'una cd. clausola sociale prevista dalla
contrattazione collettiva o dalla legge), ostandovi l'esplicito
contrario disposto del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo
29, comma 3, (secondo cui "L'acquisizione
del personale già impiegato nell'appalto a seguito di
subentro
di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo
nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto, non
costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda").
Secondo la Corte, la norma va intesa nel senso che la mera assunzione,
da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé
trasferimento d'azienda ove non si accompagni alla cessione
dell'azienda o di un suo ramo autonomo.
Resta fermo che se in un determinato appalto di servizi un imprenditore
subentra ad un altro è nel contempo ne acquisisce il
personale e
i beni strumentali organizzati (cioè l'azienda), la
fattispecie
non può che essere disciplinata dall'articolo 2112 c.c.
(pena
un'ingiustificata aporia nell'ordinamento).