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Secondo
la Cassazione non costituisce giusta causa di licenziamento, ma
è passibile unicamente di sanzione conservativa, il
comportamento del lavoratore che durante un periodo di assenza dal
lavoro per infortunio abbia svolto presso terzi una attività
lavorativa sostanzialmente coincidente con quella oggetto del contratto
di lavoro.
Nel caso di specie, la società, aveva irrogato il
licenziamento disciplinare nei confronti di un dipendente che durante
un periodo di assenza per infortunio al polso destro era stato trovato
a svolgere una attività lavorativa analoga presso
un’altra società. Alla luce di questo
comportamento del lavoratore, che era stato riconosciuto
temporaneamente inabile al lavoro, la società lo aveva
licenziato per giusta causa, ritenendo che lo svolgimento di
attività lavorativa esterna, per di più omogenea
a quella propria delle sue mansioni, fosse tale da pregiudicare il
più rapido recupero dell’idoneità
fisica compromessa per l’infortunio.
In primo e in secondo grado la tesi della società era stata
avallata, ritenendosi la condotta del lavoratore idonea a giustificare
l’irrogazione della sanzione massima espulsiva per
violazione, tra l’altro, degli obblighi contrattuali di
fedeltà e di diligenza. La Cassazione afferma invece che,
per valutare se lo svolgimento di un’altra
attività lavorativa durante il periodo
d’astensione sia tale da pregiudicare la guarigione, occorre
operare una valutazione ex post dopo la conclusione
dell’infortunio. In questo contesto, conclude la Corte, la
regolare ripresa del servizio del dipendente vittima di infortunio
poteva essere intesa come elemento diretto ad escludere che
l’attività svolta presso terzi fosse idonea a
pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche. Sulla
scorta di queste valutazioni la Corte ha escluso che la condotta
inadempiente del lavoratore fosse tale da integrare gli estremi di una
giusta causa di licenziamento.
La Corte di Cassazione ha affermato che i rapporti di collaborazione effettuati con ex dipendenti, ora titolari di pensione, devono essere ricondotti nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato quand’anche l’attività lavorativa sia solo quella di affiancare altri lavoratori neoassunti con funzioni di addestramento e formazione. I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato che rapporti di lavoro, attivati formalmente con la tipologia di collaborazione, qualora vengano svolte sostanzialmente le medesime attività che avevano caratterizzato il precedente rapporto di lavoro subordinato, cui si aggiungeva marginalmente la specifica di addestramento e formazione nei confronti dei lavoratori più giovani, non siano da considerare rapporti parasubordinati, ma dipendenti. La Corte ha ribadito, al fine di verificare la reale tipologia di lavoro svolta, quali sono, al di la del potere di direzione e controllo datoriale, gli elementi distintivi della subordinazione: la continuità temporale delle prestazioni, il rispetto di un orario predeterminato, la corresponsione di una retribuzione fissa e prestabilita, l’assenza di rischio in capo al lavoratore e il coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo datoriale.
E’
illegittimo il licenziamento disposto per inidoneità
sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento delle mansioni, sul
presupposto del solo accertamento compiuto dal medico competente e
senza aver atteso gli esiti del successivo riesame da parte della
commissione sanitaria. La Corte ha ulteriormente precisato che
l’illegittimità del provvedimento espulsivo
è anche motivata dal fatto che il datore non ha dato prova
dell’impossibilità di reimpiegare il lavoratore
altrove nell’ambito dell’azienda. Il presupposto da
cui muove la decisione è che, avverso la valutazione del
medico competente circa
l’idoneità/inidoneità parziale,
temporanea o permanente del dipendente al disimpegno di una determinata
attività, è consentito presentare ricorso, entro
30 giorni dalla comunicazione del giudizio medico, all’organo
di vigilanza territorialmente competente. Nel caso di specie,
l’intimazione del provvedimento espulsivo era intervenuta
prima che la commissione sanitaria si fosse pronunciata
sull’opposizione del lavoratore al giudizio espresso dal
medico competente. Inoltre l’invalidità del
licenziamento emergeva anche sotto il profilo del mancato accertamento
circa la possibilità di adibire il lavoratore allo
svolgimento di altre mansioni disponibili in azienda, compatibili con
le sue ridotte condizioni psico-fisiche.
La sentenza conferma che, in presenza di un licenziamento motivato con
la inidoneità fisica al lavoro, il datore è
chiamato a dimostrare l’impossibilità di
utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti e in un ambiente
compatibile con il suo stato di salute, essendo il medesimo datore
tenuto, inoltre, a confutare le allegazioni espresse dal dipendente
circa il suo possibile repêchage in altre mansioni
nell’ambito della compagine aziendale. La Suprema Corte ha
precisato che, in tale contesto, non costituisce violazione del
principio costituzionale di libertà di iniziativa economica
la decisione del giudice di dichiarare
l’illegittimità del licenziamento per sopravvenuta
inidoneità alla mansione, se il datore non ha
preventivamente valutato la possibilità di assegnare al
dipendente mansioni diverse e di pari livello.
Questa conclusione, ad avviso dei giudici, può essere
superata unicamente se la riassegnazione del lavoratore ad altre
posizioni possa indurre un’alterazione
dell’organizzazione aziendale o un trasferimento di altri
lavoratori. In questo caso, come riconosciuto da un consolidato
indirizzo, al datore di lavoro non può farsi obbligo di
ricollocare il dipendente risultato inidoneo alle specifiche mansioni,
atteso che una diversa conclusione comporterebbe una ingerenza
sull’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito
dall’impresa.
All'autonomia
delle parti è riconosciuta la possibilità di
regolare la durata del preavviso, in ogni settore merceologico. La
vicenda: un ex dipendente di un istituto di credito ha chiesto la
riforma della sentenza d'appello che aveva ritenuto valido l'accordo
individuale con cui il dipendente si era impegnato a rispettare, in
caso di dimissioni, un termine di preavviso di 18 mesi,
anziché di un mese previsto dal contratto collettivo.
La Corte di cassazione, rigettate le domande del lavoratore, ha
affermato il principio per cui la parti possono disciplinare, con
accordo individuale, la durata del preavviso, anche a prescindere dalle
previsioni del contratto collettivo.
Come rileva la sentenza è sbagliato affermare che il patto
di prolungamento del preavviso sia nullo per violazione della norma
inderogabile posta dall'articolo 2118 che, al contrario, si limita a
riconoscere nel preavviso una condizione di liceità del
recesso. Il datore di lavoro non potrebbe mai richiedere la
sottoscrizione di un accordo con cui il dipendente rinunci, in via
preventiva, al preavviso. Infatti il nucleo di
inderogabilità della norma codicistica riguarda solo
l'obbligatorietà del preavviso e non anche la sua durata, la
cui disciplina è stata rimessa alle fonti subordinate. Una
volta ammessa la disciplina da parte della contrattazione collettiva
della durata del preavviso, non può che affermarsi la
legittimità della disciplina individuale alla quale la
contrattazione collettiva faccia rinvio per la regolamentazione della
durata del preavviso.
La più importante novità della sentenza consiste
nell’aver riconosciuto un ruolo primario all'accordo
individuale, consentendo così al datore e al lavoratore di
stabilire una maggior (o minore) durata del preavviso, potendo le parti
individuarne la durate in relazione alle proprie valutazioni di
convenienza. In questo modo, quindi, l'accordo delle parti
potrà ritenersi valido e legittimo purché
entrambe ne traggano beneficio: il lavoratore sotto forma di maggior
retribuzione e/o avanzamento di carriera; il datore di lavoro, invece,
come possibilità di garantirsi una più lunga
collaborazione del dipendente.
La
questione portata all’attenzione della Suprema Corte riguarda il
ricorso avverso una decisione di merito con la quale si sosteneva
l’applicabilità dell’atto interruttivo della
prescrizione decennale, esercitato dall’Inps, solo con
riferimento ai crediti derivanti da contributi non versati da
un’azienda e non anche al credito per somme aggiuntive, ossia
sanzioni civili, sul presupposto dell’autonomia causale delle due
obbligazioni, nonché del legame solo genetico di
accessorietà degli interessi rispetto al capitale.
La Suprema Corte, ricordando preliminarmente il contrasto
giurisprudenziale generatosi negli anni sulla materia, riepiloga la
questione, affermando il principio secondo cui in materia previdenziale
le somme aggiuntive irrogate al contribuente per omesso o ritardato
pagamento dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili
che, in ragione della loro legislativamente prevista
automaticità, rimangono funzionalmente connesse al detto omesso
o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali,
cosicché gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere
con riferimento a tale ultimo credito, si estendono, automaticamente,
anche al credito per sanzioni civili.