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La Corte di Cassazione, con la sentenza
n.14375 del 14 luglio 2016, ha stabilito che è illegittimo
il licenziamento di un dipendente che si rifiuta di riprendere il
servizio presso una nuova sede di lavoro se, a seguito di
reintegrazione decisa dal giudice, il datore di lavoro non dimostra in
giudizio che il trasferimento è sorretto dalle comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive previste
dall’art. 2103 c.c.
La Suprema Corte sottolinea che incombe sul datore offrire una completa
dimostrazione delle suindicate ragioni aziendali.
La Corte di Cassazione, con sentenza n.
10352 del 19 maggio 2016, ha stabilito che l’elemento
costitutivo del trasferimento di ramo d’azienda ex. art. 2112
c.c. è l’autonomia funzionale del ramo ceduto,
ovvero la capacità di quest’ultimo a provvedere
autonomamente ad uno scopo produttivo, a prescindere da eventuali
elementi organizzativi introdotti dalla cessionaria. Tale autonomia
deve sussistere al momento dello scorporo.
L’elemento di novità della pronuncia è
da individuarsi nella necessità che entrambi i requisiti,
quello della preesistenza del ramo e quello dell’autonomia
funzionale, al fine della configurazione del ramo d’azienda,
devono sussistere necessariamente nello stesso momento. Il ramo ceduto
deve, infatti, essere in grado di svolgere il servizio o la funzione
cui già era preposto anteriormente la cessione, senza
integrazioni di rilievo da parte del cessionario. Ai fini della
valutazione della sussistenza della cessione del ramo
d’azienda, gli elementi organizzativi introdotti dalla
cessionaria in un momento successivo al contratto di cessione di ramo
d’azienda non possono essere usati per “dimostrare
che l’oggetto della cessione fosse in grado di funzionare
autonomamente al momento della cessione stessa”.
La
Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con sentenza n. 12095 del 13
giugno 2016, ha chiaramente affermato che in materia di licenziamento
collettivo deve essere distinto il caso di incompletezza della
comunicazione, integrante una ipotesi di “violazione delle
procedure” richiamate dall’art. 4, comma 12 della
L.223/1991, dal caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal
comma 1 della stessa legge.
La Suprema Corte precisa che nel primo caso il giudice
dichiarerà risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data
di licenziamento e condannerà il datore al pagamento di
un’indennità risarcitoria omnicomprensiva fra un minimo di
dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto.
Nel secondo, diversamente, si applicherà l’art. 18, 4°
comma della L.300/1970: il giudice annullerà il licenziamento e
condannerà il datore alla reintegrazione nel posto di lavoro,
unitamente alla previsione di un’indennità risarcitoria
legata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del
licenziamento, fino a quello di effettiva reintegrazione.
In
caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice non
può estendere la propria valutazione al merito alle ragioni del
processo di riorganizzazione aziendale posto alla base del recesso.
I motivi della riorganizzazione, infatti, rientrano nell'ambito delle
scelte imprenditoriali di libera iniziativa economica, e il giudicante
deve limitarsi ad accertarne la sussistenza ai fini della verifica
della loro effettività.