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La sentenza con cui il tribunale
afferma l'illegittimità del licenziamento non è un titolo
esecutivo se non consente di quantificare il credito. La Corte di
Cassazione respinge il ricorso di un lavoratore che, in forza di una
sentenza con la quale il tribunale aveva annullato il suo
licenziamento, aveva chiesto al datore le retribuzioni maturate nei
dieci anni in cui era stato allontanato dall'impresa. Nel silenzio del
datore, il lavoratore si è rivolto al giudice dell'esecuzione
per un pignoramento presso terzi, per circa 155 mila euro: quanto a lui
risultava dal calcolo delle mensilità non pagate. Di tale
conteggio tuttavia non vi era nella sentenza. Il magistrato competente
aveva accolto la richiesta del datore di sospendere l'esecuzione per
assenza di un titolo idoneo e rimesso la controversia nelle mani del
giudice del lavoro.
La Cassazione ricorda che al giudice dell'esecuzione va data una
sentenza "chiavi in mano", perché il titolo esecutivo si fonda
su elementi certi e positivi, da identificare nei dati che, seppure
«non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come
certi e oggettivamente già determinati, anche nel loro assetto
quantitativo, perché così predisposti dalle parti e
pertanto acquisiti al processo e non desumibili da elementi
esterni». Al massimo quello che il giudice dell'esecuzione
può fare, quando ha dei parametri, è procedere a un
calcolo matematico. Se questo non è possibile la sola strada che
resta al creditore è fare ricorso al procedimento monitorio,
nell'ambito del quale la sentenza può essere utilizzata come
atto scritto, a dimostrazione dell'esistenza del credito, il cui
ammontare può essere provato con altri e diversi documenti.
La vicenda decisa dalla Corte con la sentenza n. 18675 del 4
settembre 2014 consiste nella cessione di un “apparente”
ramo d'azienda e dei relativi lavoratori i quali, tuttavia, hanno
contestato l'operazione sostenendo l'insussistenza dei presupposti
della cessione, con la conseguente illegittimità del
trasferimento del rapporto di lavoro a un soggetto terzo e l'assoluta
inapplicabilità dell'art. 2112 cod. civ.
A conferma di quanto appena detto i dipendenti hanno contestato
(circostanza poi confermata dalla sentenza) di non essere mai
appartenuti al ramo d'azienda ceduto e di non aver mai svolto le
mansioni e le attività caratterizzanti il preteso ramo. Peraltro
nessun elemento di prova in senso contrario è stato fornito
dalla società nel corso del processo.
Con la sentenza in commento la Cassazione ha affermato che la cessione
di ramo d’azienda – prevista dall’articolo 2112 del
c.c. – e quindi la successiva procedura di licenziamento
collettivo del personale può essere invocata soltanto qualora
preesista una autonomia funzionale ed organizzativa dell’area
ceduta e non quando, ciò venga “ad hoc” creato quale
contenitore per trasferirvi le risorse umane considerate in eccesso al
fine di ottenere la fuoriuscita degli stessi.
Il Consiglio di Stato,
ha ribadito la possibilità da parte del lavoratore di usufruire
dei riposi giornalieri di congedo parentale anche se la moglie è
casalinga.
Si tratta di quei riposi previsti dall’art. 40 del TU sulla maternità e riconosciuti al padre lavoratore:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
La Corte ha ritenuto che la normativa deve fornire un sostegno alla
famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità
generali di tipo promozionale previste dall’art. 31 della
Costituzione, il quale pone l’accento sul beneficio del padre ai
permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia
diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata
in attività ( nella fattispecie, quella di
“casalinga” ), che la distolgano dalla cura del neonato.
Con l’espressione “non lavoratrice dipendente” il
legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque
svolgenti un’attività lavorativa e, quindi, anche alle
madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione
della attività domestica ad una vera e propria attività
lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può
farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui
la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e
non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo
giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente
ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio.