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GiurisprudenzaScarica PDF
La «cancellazione» del licenziamento non è titolo esecutivo 
Cassazione n. 18519 del 2 settembre 2014

La sentenza con cui il tribunale afferma l'illegittimità del licenziamento non è un titolo esecutivo se non consente di quantificare il credito. La Corte di Cassazione respinge il ricorso di un lavoratore che, in forza di una sentenza con la quale il tribunale aveva annullato il suo licenziamento, aveva chiesto al datore le retribuzioni maturate nei dieci anni in cui era stato allontanato dall'impresa. Nel silenzio del datore, il lavoratore si è rivolto al giudice dell'esecuzione per un pignoramento presso terzi, per circa 155 mila euro: quanto a lui risultava dal calcolo delle mensilità non pagate. Di tale conteggio tuttavia non vi era nella sentenza. Il magistrato competente aveva accolto la richiesta del datore di sospendere l'esecuzione per assenza di un titolo idoneo e rimesso la controversia nelle mani del giudice del lavoro.
La Cassazione ricorda che al giudice dell'esecuzione va data una sentenza "chiavi in mano", perché il titolo esecutivo si fonda su elementi certi e positivi, da identificare nei dati che, seppure «non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati, anche nel loro assetto quantitativo, perché così predisposti dalle parti e pertanto acquisiti al processo e non desumibili da elementi esterni». Al massimo quello che il giudice dell'esecuzione può fare, quando ha dei parametri, è procedere a un calcolo matematico. Se questo non è possibile la sola strada che resta al creditore è fare ricorso al procedimento monitorio, nell'ambito del quale la sentenza può essere utilizzata come atto scritto, a dimostrazione dell'esistenza del credito, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti.

Eccessive malattie e licenziamento per scarso rendimento
Cassazione n. 18678 del 4 settembre 2014
Con la sentenza in commento la Cassazione ha affermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore che con le sue malattie agganciate principalmente ai giorni di riposo, aveva fornito «una prestazione lavorativa non sufficiente e proficuamente utilizzabile dall’azienda».  Secondo i giudici della Suprema Corte, le assenze per malattia - quando sono numerose, di breve durata, «a macchia di leopardo», si verificano in occasione dell'adibizione del lavoratore a turni di lavoro di fine settimana o notturni e vengono dal medesimo comunicate senza adeguato preavviso rispetto all'inizio del turno di lavoro – (seppur incolpevoli) possono incidere negativamente sulla produzione aziendale così da configurare scarso rendimento, poiché la prestazione di lavoro diviene non più utile per il datore di lavoro, che può legittimamente recedere dal rapporto, a nulla rilevando il mancato superamento del periodo di comporto.
Ristrutturazioni aziendali e procedura di licenziamento
Cassazione n. 18675 del 4 settembre 2014

La vicenda decisa dalla Corte con la sentenza n. 18675 del 4 settembre 2014 consiste nella cessione di un “apparente” ramo d'azienda e dei relativi lavoratori i quali, tuttavia, hanno contestato l'operazione sostenendo l'insussistenza dei presupposti della cessione, con la conseguente illegittimità del trasferimento del rapporto di lavoro a un soggetto terzo e l'assoluta inapplicabilità dell'art. 2112 cod. civ.
A conferma di quanto appena detto i dipendenti hanno contestato (circostanza poi confermata dalla sentenza) di non essere mai appartenuti al ramo d'azienda ceduto e di non aver mai svolto le mansioni e le attività caratterizzanti il preteso ramo. Peraltro nessun elemento di prova in senso contrario è stato fornito dalla società nel corso del processo.
Con la sentenza in commento la Cassazione ha affermato che la cessione di ramo d’azienda – prevista dall’articolo 2112 del c.c. – e quindi la successiva procedura di licenziamento collettivo del personale può essere invocata soltanto qualora preesista una autonomia funzionale ed organizzativa dell’area ceduta e non quando, ciò venga “ad hoc” creato quale contenitore per trasferirvi le risorse umane considerate in eccesso al fine di ottenere la fuoriuscita degli stessi.

Congedo parentale al padre anche se la madre è casalinga
Consiglio di Stato sentenza n. 4618 del  10 settembre 2014

Il Consiglio di Stato, ha ribadito la possibilità da parte del lavoratore di usufruire dei riposi giornalieri di congedo parentale anche se la moglie è casalinga.
Si tratta di quei riposi previsti dall’art. 40 del TU sulla maternità e riconosciuti al padre lavoratore:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
La Corte ha ritenuto che la normativa deve fornire un sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale previste dall’art. 31 della Costituzione, il quale pone l’accento sul beneficio del padre ai permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività ( nella fattispecie, quella di “casalinga” ), che la distolgano dalla cura del neonato.
Con l’espressione “non lavoratrice dipendente” il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti un’attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio.