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GiurisprudenzaScarica PDF
Licenziamento del lavoratore per il clima di tensione creato in azienda
Cassazione n. 17435 del 2 settembre 2015

Secondo la Corte di Cassazione è da ritenersi pienamente legittimo il licenziamento del dipendente che, con comportamenti minacciosi ed ingiuriosi, crea un generale clima di tensione all’interno dell’azienda. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 17435 del 2 settembre 2015, ha precisato che la sanzione espulsiva risulta proporzionata, dal momento che l’espletata istruttoria non ha confermato l’atteggiamento persecutorio lamentato dal lavoratore, né lo stesso ha fornito le prove che i fatti contestati costituivano la reazione ad un atteggiamento persecutorio da parte del datore di lavoro.

Sul lavoro fino a 70 anni ultima parola alle imprese 
Cassazione n. 17589 del 4 settembre 2015

La legge Fornero di riforma delle pensioni non attribuisce al lavoratore il diritto di rimanere al lavoro fino a 70 anni, dopo aver raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia.
L’articolo 24, comma 4 del decreto legge 201/2011 prevede la possibilità di conteggiare i periodi di lavoro svolto dopo la maturazione dei requisiti pensionistici utilizzando per i coefficienti di trasformazione i contributi accumulati in aggiunta; pertanto, la permanenza al lavoro non costituisce un «diritto potestativo» del lavoratore ma può solo essere frutto di un accordo tra le parti, quindi tra il dipendente e l’azienda.
Questa è interpretazione del comma 4 dell’articolo 24 del decreto legge 201/2011 data la Cassazione in commento.
Le Sezioni unite si dedicano alla questione – che ha dato luogo a rilevanti contrasti giurisprudenziali – circa la natura dell’incentivo a proseguire l’attività lavorativa, «fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza». Incentivo che consiste nella valorizzazione, attraverso i coefficienti di trasformazione, dei contributi per il lavoro oltre l’età della vecchiaia, fino a 70 anni. L’espressione “limiti ordinamentali” fa riferimento, secondo la Corte, alle disposizioni legislative che regolano specifici comparti (per esempio, la disciplina del pubblico impiego). La disposizione, per le Sezioni Unite, non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto, ma prevede che per quanti lavorano oltre l’età della vecchiaia – per un accordo tra dipendente e datore di lavoro – ci siano le condizioni per la prosecuzione del rapporto. Pertanto, conclude la Corte, il fatto che la legge prevede l’applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in favore di chi permane al lavoro fino a 70 non significa che chiunque ha questo diritto; al contrario, la norma va intesa nel senso che, per chi raggiunge l’accordo con il datore di lavoro per la prosecuzione del lavoro, permane la tutela contro i licenziamenti ingiustificati.
La sentenza – scaturita da un contenzioso avviato dal licenziamento di un giornalista – si pronuncia anche sulla natura dell’Inpgi, confermando la natura privata dell’istituto di previdenza dei giornalisti, essendo ricompreso nell’elenco degli enti privatizzati con il decreto legislativo 509/1994, anche se l’istituto «ha sempre gestito e continua a gestire una forma sostitutiva dell’Ago», l’assicurazione generale obbligatoria coperta dall’Inps.
Per le Sezioni unite della Corte di Cassazione, i giornalisti, obbligatoriamente iscritti all’Inpgi per la tutela previdenziale, non sono ricompresi tra i lavoratori destinatari della posssibilità (rimessa, come visto, a un accordo tra le parti) di continuare a lavorare fino a 70 anni. Questa chance è prevista solo per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria Inps e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché a quanti fanno capo alla gestione separata.

Indennità di reperibilità doppia per il lavoratore che si rende disponibile anche per il turno di un collega 
Cassazione n. 18667 del 22 settembre 2015

La Suprema Corte ha statuito che qualora un dipendente, oltre a prestare il proprio turno di reperibilità, sostituisca un collega anch'egli tenuto al medesimo turno, ha diritto al riconoscimento di una doppia indennità.
Secondo i Giudici della Suprema Corte l’accollo di compiti altrui da parte del lavoratore e la relativa approvazione dei turni da parte del datore sono risultati elementi sufficienti per dedurre la conoscenza da parte dell'azienda della sostituzione in oggetto.
La Corte di Cassazione ha poi evidenziato che l'espletamento del servizio di reperibilità fa sorgere in capo al dipendente il diritto al pagamento del relativo compenso: infatti la reperibilità, consistendo nell’obbligo del lavoratore non in servizio di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un’eventuale prestazione lavorativa, limita senza escluderlo del tutto il godimento del riposo stesso, circostanza che comporta il diritto a un particolare trattamento economico aggiuntivo nonché il diritto a un giorno di riposo compensativo.
Conclusivamente, essendo tale compenso correlato all'entità del servizio di reperibilità reso dal dipendente, il lavoratore che - come nel caso in esame - ha svolto un doppio servizio, per sé e per il collega sostituito, ha diritto a una doppia indennità.




Il protrarsi nel tempo del demansionamento non implica acquiescenza da parte del lavoratore
Cassazione n. 18431 del 18 settembre 2015

La Corte di Cassazione, chiamata a decidere in merito al demansionamento subito da un dipendente per cinque anni, ha statuito che il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima non può integrare acquiescenza da parte del dipendente.
Nello specifico, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di una società che, tra le varie censure, sosteneva che in sede di appello i giudici non avevano considerato come il dipendente - prima capo distretto, poi semplice venditore, con conseguente riduzione della parte variabile della retribuzione - avesse atteso cinque anni prima di reagire al demansionamento, in tal modo prestando acquiescenza allo stesso e accettandone le conseguenze.
I giudici di legittimità hanno chiarito come il protrarsi nel tempo non possa intendersi né come acquiescenza del dipendente alla situazione imposta dal datore nell'esercizio del potere organizzativo del lavoro, essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti che la legge pone allo ius variandi datoriale, né tantomeno come prova della tollerabilità del dipendente medesimo, in quanto proprio il perdurare della situazione di illegittimità ben potrebbe giustificare le sue dimissioni.