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Secondo la Corte di Cassazione è da ritenersi pienamente legittimo il licenziamento del dipendente che, con comportamenti minacciosi ed ingiuriosi, crea un generale clima di tensione all’interno dell’azienda. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 17435 del 2 settembre 2015, ha precisato che la sanzione espulsiva risulta proporzionata, dal momento che l’espletata istruttoria non ha confermato l’atteggiamento persecutorio lamentato dal lavoratore, né lo stesso ha fornito le prove che i fatti contestati costituivano la reazione ad un atteggiamento persecutorio da parte del datore di lavoro.
La
legge Fornero di riforma delle pensioni non attribuisce al lavoratore
il diritto di rimanere al lavoro fino a 70 anni, dopo aver raggiunto i
requisiti per la pensione di vecchiaia.
L’articolo
24, comma 4 del decreto legge 201/2011 prevede la possibilità di
conteggiare i periodi di lavoro svolto dopo la maturazione dei
requisiti pensionistici utilizzando per i coefficienti di
trasformazione i contributi accumulati in aggiunta; pertanto, la
permanenza al lavoro non costituisce un «diritto
potestativo» del lavoratore ma può solo essere frutto di
un accordo tra le parti, quindi tra il dipendente e l’azienda.
Questa è interpretazione del comma 4 dell’articolo 24 del decreto legge 201/2011 data la Cassazione in commento.
Le Sezioni unite si dedicano alla questione – che ha dato luogo a
rilevanti contrasti giurisprudenziali – circa la natura
dell’incentivo a proseguire l’attività lavorativa,
«fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di
appartenenza». Incentivo che consiste nella valorizzazione,
attraverso i coefficienti di trasformazione, dei contributi per il
lavoro oltre l’età della vecchiaia, fino a 70 anni.
L’espressione “limiti ordinamentali” fa riferimento,
secondo la Corte, alle disposizioni legislative che regolano specifici
comparti (per esempio, la disciplina del pubblico impiego). La
disposizione, per le Sezioni Unite, non attribuisce al lavoratore un
diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto, ma prevede che per
quanti lavorano oltre l’età della vecchiaia – per un
accordo tra dipendente e datore di lavoro – ci siano le
condizioni per la prosecuzione del rapporto. Pertanto, conclude la
Corte, il fatto che la legge prevede l’applicazione
dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in favore di chi
permane al lavoro fino a 70 non significa che chiunque ha questo
diritto; al contrario, la norma va intesa nel senso che, per chi
raggiunge l’accordo con il datore di lavoro per la prosecuzione
del lavoro, permane la tutela contro i licenziamenti ingiustificati.
La sentenza – scaturita da un contenzioso avviato dal
licenziamento di un giornalista – si pronuncia anche sulla natura
dell’Inpgi, confermando la natura privata dell’istituto di
previdenza dei giornalisti, essendo ricompreso nell’elenco degli
enti privatizzati con il decreto legislativo 509/1994, anche se
l’istituto «ha sempre gestito e continua a gestire una
forma sostitutiva dell’Ago», l’assicurazione generale
obbligatoria coperta dall’Inps.
Per le Sezioni unite della Corte di Cassazione, i giornalisti,
obbligatoriamente iscritti all’Inpgi per la tutela previdenziale,
non sono ricompresi tra i lavoratori destinatari della
posssibilità (rimessa, come visto, a un accordo tra le parti) di
continuare a lavorare fino a 70 anni. Questa chance è prevista
solo per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria
Inps e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché
a quanti fanno capo alla gestione separata.
La
Suprema Corte ha statuito che qualora un dipendente, oltre a prestare
il proprio turno di reperibilità, sostituisca un collega
anch'egli tenuto al medesimo turno, ha diritto al riconoscimento di una
doppia indennità.
Secondo i Giudici della Suprema Corte l’accollo di compiti altrui
da parte del lavoratore e la relativa approvazione dei turni da parte
del datore sono risultati elementi sufficienti per dedurre la
conoscenza da parte dell'azienda della sostituzione in oggetto.
La Corte di Cassazione ha poi evidenziato che l'espletamento del
servizio di reperibilità fa sorgere in capo al dipendente il
diritto al pagamento del relativo compenso: infatti la
reperibilità, consistendo nell’obbligo del lavoratore non
in servizio di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato
in vista di un’eventuale prestazione lavorativa, limita senza
escluderlo del tutto il godimento del riposo stesso, circostanza che
comporta il diritto a un particolare trattamento economico aggiuntivo
nonché il diritto a un giorno di riposo compensativo.
Conclusivamente, essendo tale compenso correlato all'entità del
servizio di reperibilità reso dal dipendente, il lavoratore che
- come nel caso in esame - ha svolto un doppio servizio, per sé
e per il collega sostituito, ha diritto a una doppia indennità.
La
Corte di Cassazione, chiamata a decidere in merito al demansionamento
subito da un dipendente per cinque anni, ha statuito che il protrarsi
nel tempo di una situazione illegittima non può integrare
acquiescenza da parte del dipendente.
Nello specifico, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di una
società che, tra le varie censure, sosteneva che in sede di
appello i giudici non avevano considerato come il dipendente - prima
capo distretto, poi semplice venditore, con conseguente riduzione della
parte variabile della retribuzione - avesse atteso cinque anni prima di
reagire al demansionamento, in tal modo prestando acquiescenza allo
stesso e accettandone le conseguenze.
I giudici di legittimità hanno chiarito come il protrarsi nel
tempo non possa intendersi né come acquiescenza del dipendente
alla situazione imposta dal datore nell'esercizio del potere
organizzativo del lavoro, essendo indisponibili gli interessi sottesi
ai limiti che la legge pone allo ius variandi datoriale, né
tantomeno come prova della tollerabilità del dipendente
medesimo, in quanto proprio il perdurare della situazione di
illegittimità ben potrebbe giustificare le sue dimissioni.