Milano - corso G. Matteotti, 7
tel. +39 0254118656
Roma - piazza G. Mazzini, 27
tel. +39 0698386285
studio@arlatighislandi.it
www.arlatighislandi.it
blog.arlatighislandi.it
La
Corte di Cassazione ha affermato che l’impugnazione del
licenziamento costituisce una fattispecie a formazione progressiva,
soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, rispetto
alla quale risulta indifferente il momento perfezionativo
dell’atto di impugnativa vero e proprio; la norma non prevede,
infatti, la perdita di efficacia di un’impugnazione già
perfezionatasi (dunque già pervenuta al destinatario) per
effetto della successiva intempestiva attivazione dell’impugnate
in sede contenziosa, ma impone un doppio termine di decadenza
affinché l’impugnazione stessa sia in sé efficace;
la locuzione “l’impugnazione è inefficace se
…” sta infatti ad indicare che, indipendentemente dal suo
perfezionamento (e quindi dai tempi in cui lo stesso si realizza con la
ricezione dell’atto da parte del destinatario), il lavoratore
deve attivarsi, nel termine indicato, per promuovere il giudizio. Il
primo termine si avrà per rispettato ove l’impugnazione
sia trasmessa entro 60 giorni dalla ricezione degli atti indicati da
parte del lavoratore il quale quindi, da tale momento, avendo assolto
alla prima delle incombenze di cui è onerato, è
assoggettato a quella ulteriore, sempre imposta a pena di decadenza, di
attivare la fase giudiziaria entro il termine prefissato.
In sostanza, dunque, l’impugnazione, per essere in se efficace e
poter quindi raggiungere il proprio scopo tipico (ferma ovviamente la
sua ricezione da parte del datore di lavoro), richiede il rispetto di
un doppio termine di decadenza, che è interamente rimesso al
controllo dello stesso impugnante. Tale soluzione, non lede in alcun
modo il diritto di difesa del lavoratore che, anzi, è
perfettamente in grado di sapere quale sia il dies a quo per
l’instaurazione della fase giudiziaria. In definitiva, il
principio di diritto: “il termine di decadenza di cui al secondo
comma dell’art. 6 della legge 604/1966, come da ultimo modificato
dall’art. 1, comma 38, della legge n. 92/2012, decorre dalla
trasmissione dell’atto scritto di impugnazione del licenziamento
di cui al primo comma e non dalla data di perfezionamento
dell’impugnazione per effetto della sua ricezione da parte del
datore di lavoro”.
Con la sentenza in commento la Cassazione, riformando la decisione della Corte di Appello, ha affermato che l’impresa cessionaria, in caso di passaggio d’azienda, subentra “in toto” alla impresa cedente. Di conseguenza è legittimata a risolvere il rapporto di lavoro con un dipendente per il quale è arrivata la sentenza definitiva di condanna penale per fatti disciplinarmente rilevanti compiuti mentre era alle dipendenze del precedente datore di lavoro.
Secondo
la Corte di Cassazione è pienamente legittimo il licenziamento
del dipendente che, svolgendo la propria attività lavorativa al
di fuori dei locali aziendali, viene sorpreso dal datore di lavoro,
mediante l’uso di uno strumento di localizzazione (Gps), ad
intrattenersi al bar in orario di servizio. La Suprema Corte, con la
Sentenza n. 20440 del 12 ottobre 2015, ha statuito la validità
del recesso, in quanto non sussiste il divieto di utilizzo dei
cosiddetti controlli difensivi, finalizzati ad accertare mancanze
specifiche e comportamenti estranei alla normale prestazione lavorativa
nonché illeciti, soprattutto nell’ipotesi di lavoro da
eseguirsi al di fuori dei locali aziendali.
Con
la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha affermato come il
lavoratore a tempo parziale che svolge attività di lavoro
notturno e/o lavoro notturno festivo abbia diritto ad una maggiorazione
della retribuzione, per le ore di lavoro svolte con tale
modalità, pari a quella percepita, per le medesime
attività, dal lavoratore a tempo pieno comparabile.
I giudici della Suprema Corte hanno asserito come vada applicato il
principio di non discriminazione, previsto dall’articolo 4 del
D.L.vo n. 61/2000, anche a quei lavoratori a tempo parziale i quali non
devono ricevere un trattamento meno favorevole rispetto a quelli a
tempo pieno comparabili e quindi, a parità di livello, il
lavoratore a tempo parziale ha diritto a ricevere la stessa
maggiorazione corrisposta al lavoratore a tempo pieno.