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Con
la sentenza n. 17240 del 22 agosto 2016, la Corte di Cassazione ha
precisato che nell’ipotesi di licenziamento per giusta causa, poi
rilevatasi insussistente, di un lavoratore assunto con contratto a
tempo determinato, l’illegittimo recesso non comporta, sotto il
profilo sanzionatorio, la trasformazione del contratto a termine in
contratto a tempo indeterminato.
Conseguentemente è inapplicabile la disciplina in tema di
licenziamenti dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato con
relative tutele. Nel caso di specie, i lavoratori, addetti alle
vendite, venivano licenziati per aver venduto e/o acquistato da
colleghi una serie di prodotti a prezzi scontati oltre il consentito,
in alcuni casi fino a più del 90%. Gli argomenti difensivi
svolti dagli appellanti si risolvevano sostanzialmente
nell'affermazione di essere stati a ciò autorizzati dall'azienda.
Con
la sentenza n. 18190 del 16 settembre 2016 la Corte di Cassazione ha
fornito dei chiarimenti in merito alla possibilità di intimare
un licenziamento collettivo per riduzione di personale,
nell’ambito di una singola unità produttiva.
Qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo
esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, la
comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare
alla mobilità, può essere limitata agli addetti
dell'unità o del settore da ristrutturare, in quanto ciò
non sia l'effetto dell'unilaterale determinazione del datore di lavoro,
ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative
fondanti la riduzione di personale.
Con
la sentenza n. 18325 del 19 settembre 2016, la Corte di Cassazione ha
ritenuto che la presunzione di nullità del licenziamento
intimato nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle
pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno
dopo la celebrazione stessa, è relativa, in quanto, nei casi
tassativamente previsti dalla legge (art. 35 del D.Lgs. 198/2006),
è possibile fornire prova contraria.
Nel caso di specie, la causale del recesso è consistita nel
giustificato motivo oggettivo determinato dalla ristrutturazione
aziendale in corso e dalla impossibilità di impiego della
lavoratrice in altre mansioni. Detta causale non risiede, dunque, nella
cessazione dell'attività di impresa, nè di un suo ramo, causali
previste dall’art. 35 del D.Lgs. 198/2006.
Non operando, nella disciplina di cui al Decreto Legislativo n. 198 del
2006, articolo 35, i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ne consegue che non
spetta comunque alla lavoratrice, neppure in presenza della cessazione
dell'attività aziendale cui è addetta, dimostrare
l'esistenza di residue possibilità occupazionali all'interno
dell'impresa (c.d. repechage).
La
Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18866 del 26 settembre 2016, ha
precisato che il trasferimento del lavoratore presso altra sede,
giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali, può
consentire al medesimo di richiedere giudizialmente l'accertamento
della legittimità del provvedimento di trasferimento, ma non lo
autorizza a rifiutarsi aprioristicamente - e senza un eventuale avallo
giudiziario - di rendere la prestazione.
Può, pertanto, essere accordata urgentemente in via cautelare,
una condanna del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa
richiesta, in quanto quest’ultimo è tenuto ad osservare le
disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore.
Con
la sentenza n. 20218, depositata il 7 ottobre 2016, la Corte di
Cassazione ha avallato l’immediata risoluzione del rapporto da
parte del datore di lavoro per assenza ingiustificata dal lavoro per
tre giorni consecutivi, in base alla previsione del contratto
collettivo applicato dall’azienda stessa.
I giudici della Suprema Corte si sono soffermati sul tipo di
licenziamento da comminare e cioè per “giusta causa”
o “giustificato motivo soggettivo”. La scelta ricade in
capo al datore di lavoro e dipende dalla gravità del fatto in
relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere
tra le parti, facendo riferimento agli aspetti concreti
afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla
posizione delle parti, al grado di affidabilità
richiesto dalle singole mansioni, nonché dalla portata
soggettiva del fatto, ossia dalle circostanze del suo verificarsi, dai
motivi e dall’intensità dell’elemento intenzionale
e di quello colposo.
Nel caso di specie la giusta causa del licenziamento è
supportata non solo dall’assenza del lavoratore dal posto di
lavoro senza giustificazione ma anche (e soprattutto) perché
quest’ultimo ha fornito, in seguito, giustificazioni
risultate non vere, che hanno portato alla dimostrazione della sua
mancanza di buona fede e che erano idonee a ledere irrimediabilmente la
fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, tenuto
conto anche della sua elevata qualifica e della
posizione ricoperta.
Con
la sentenza n. 21209, del 19 ottobre 2016, la Corte di Cassazione ha
precisato che è fondata la richiesta di retribuzione di un
giorno festivo da parte di lavoratori che si sono rifiutati di rendere
la propria prestazione in quel giorno. Ciò nonostante il
disposto del CCNL prevede la possibilità di richiedere la
prestazione lavorativa anche in caso di festività, in cambio di
numerosi trattamenti di miglior favore.
La Corte di Cassazione ha chiarito che il diritto del lavoratore di
astenersi dall'attività lavorativa in caso di festività
è pieno ed ha carattere generale e quindi non rilevano le
ragioni che hanno determinato l'assenza di prestazione. Il trattamento
economico ordinario deriva, infatti, direttamente dalla legge e non
possono su questo piano aver alcun rilievo le disposizioni
contrattuali, che potrebbero incidere, al più, sul piano
disciplinare.