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Giurisprudenza Scarica PDF
Concorrenza sleale anche solo potenziale
Cassazione n. 1100 del 20 gennaio 2014
La recente Cassazione precisa come costituisca concorrenza sleale assumere il dipendente di un’altra azienda al fine di acquisire tramite quest’ultimo, le tecniche di produzione e gli aspetti qualitativi dei prodotti altrui.
La condotta sleale è stata individuata in una serie di attività dirette a sottrarre informazioni che, anche se non sono qualificabili come veri e propri segreti, l'azienda decide di mantenere riservate in quanto nozioni capaci di connotare il ciclo produttivo, la qualità ed il prodotto, quindi, per loro natura costituenti elemento caratterizzante ed essenziale per l'azienda.
Si ribadisce quindi quanto già affermato in varie pronunce di legittimità che sempre in materia di repressione degli atti di confusione realizzati per mezzo di fatti specifici di concorrenza sleale, secondo l’art. 2598 c.c., ai fini della pronuncia di una condanna generica al risarcimento dei danni non sia necessario che un danno sia stato già prodotto in relazione ad una attività concorrenziale in atto, ma si rivela invece sufficiente soltanto una situazione di concorrenza potenziale; basta cioè che l’imprenditore invada la sfera di produzione del competitor per captare tutte quelle informazioni che, pur se non segrete, sono comunque vitali per l’azienda stessa.
Installazione delle telecamere senza autorizzazione - datore responsabile penalmente
Cassazione n. 4331 del 30 gennaio 2014
La Cassazione ha affermato che l'installazione di telecamere all'interno dell'azienda e puntate direttamente sui dipendenti, effettuata senza attendere l'autorizzazione della DTL o l'accordo con le rappresentanze sindacali, comporta la responsabilità penale del datore di lavoro, anche se le stesse risultano spente.
La Suprema Corte, evidenzia come vada prioritariamente tutelato il bene giuridico della riservatezza del lavoratore; di conseguenza, il reato di pericolo a carico del datore di lavoro può configurarsi con la mera installazione non autorizzata dell'impianto di videoripresa, anche se la telecamera risulta spenta sino all’ottenimento del benestare dell'ispettorato del lavoro.
Dirigenti esclusi dalla mobilità e dalla cassa integrazione: la legge italiana viola i principi comunitari
Corte di Giustizia CE sentenza C - 596/12 del 13 febbraio 2014
La Corte di Giustizia Europea, con la Sentenza C - 596/12 pubblicata il 13 febbraio 2014 giudica incompatibile con le disposizioni comunitarie la legge italiana laddove esclude i dirigenti dalla mobilità e dalla cassa integrazione.
Dopo il parere già espresso dalla Commissione Europea, (che con un parere motivato reso noto il 21 giugno 2012 chiedeva chiarimenti all’Italia in merito all’esclusione dei dirigenti sia dall’applicabilità delle disposizioni riguardanti la mobilità sia dal computo dei lavoratori ai fini degli obblighi di informazione e consultazione nei casi di licenziamento collettivo), anche la Suprema corte Europea ha affermato che la Legge n. 223/1991 risulta incompatibile con la normativa comunitaria.
Infatti, la Legge n. 223/1991 si applica solamente a impiegati, operai e quadri, mentre le norme europee, rappresentate dalla Direttiva 95/59, non prevedono distinzioni in relazione alla categoria dei lavoratori.
Indennità omnicomprensiva per illegittimità del termine
Cassazione n. 3027 del 11 febbraio 2014
Le somme spettanti a titolo di risarcimento danni per la violazione dei molteplici obblighi facenti carico al datore di lavoro, hanno natura retributiva solo quando derivino da un inadempimento, il quale, pur non riguardando direttamente l'obbligazione retributiva, tuttavia immediatamente incida su di essa in quanto determini la mancata corresponsione di compensi dovuti al dipendente; viceversa le attribuzioni patrimoniali che il lavoratore riceve, quali l'indennità omnicomprensiva ricevuta dal lavoratore a causa dell'illegittimità dell'apposizione del termine in un contratto a tempo determinato (art. 32, co. 5, L. n. 183/2010), a titolo di risarcimento del danno per la violazione degli altri obblighi del datore, sebbene siano anch'esse "dipendenti dal rapporto di lavoro" non hanno natura retributiva, così come tale natura non aveva l’obbligazione primaria rimasta inadempiuta.

In considerazione di ciò, non spettano né la rivalutazione monetaria né gli interessi legali sull’indennità stabilità dall’art. 32, comma 5, L. n. 183\10, se non dal momento della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato, anche argomentando dall’art. 1, comma 13, della L. 28 giugno 2012 n. 92.
L’indennità in esame rappresenta infatti il ristoro (seppure "forfetizzato" e "omnicomprensivo") dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto.
Risoluzione consensuale: inoperante se il dipendente chiede di essere riassunto
Cassazione n. 4589 del 26 febbraio 2014
In materia di risoluzione consensuale, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore non può essere considerato legittimo ed operante, qualora a fronte dello stesso il lavoratore chieda di essere riassunto presso lo stesso datore.
Secondo la Suprema Corte il lasso di tempo trascorso tra la cessazione del contratto a termine intercorso tra le parti e l'instaurazione del giudizio non costituiscono prova della volontà delle parti di risolvere consensualmente il rapporto.
Affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (gravando sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi tale volontà).

Nello specifico la Suprema Corte ha ritenuto che le visite effettuate dalla lavoratrice presso il datore di lavoro per acquisire informazione sulla possibilità di assunzioni, fossero una chiara manifestazione di interesse all’assunzione, incompatibili con l’avvenuta risoluzione consensuale del rapporto.
Ha, invece, escluso che fossero da considerarsi elementi idonei a provare l’unicità di volontà di risolvere il rapporto, l’accettazione da parte della lavoratrice delle spettanze a titolo di TFR, né tantomeno il fatto che nelle more vi siano stati altri rapporti di lavoro giustificabili da esigenze di sostentamento.