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La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 5 novembre 2015, n.22611, ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che non adempie alle indicazioni del superiore e si rende protagonista di un acceso diverbio, con tanto di ingiurie, in presenza di altri colleghi. In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
Secondo
la Cassazione, il giudice deve, stante l'inderogabilità
della disciplina dei licenziamenti, comunque verificare, anche
prescindendo dalle previsioni del contratto collettivo, aventi natura
meramente esemplificativa, la riconducibilità del fatto
addebitato alla nozione di giusta causa di cui all'art. 2119 c.c.,
stabilendo, anche in ossequio al principio generale di ragionevolezza e
di proporzionalità, se questo sia di entità tale
da legittimare il recesso, tenendo conto altresì
dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.
A tale stregua il giudice del merito è tenuto a valutare il
comportamento, pur articolato in una pluralità di condotte,
fatto oggetto di unitaria contestazione ai fini della verifica, in
relazione alle caratteristiche oggettive e soggettive dello stesso,
della permanenza del vincolo fiduciario ovvero della perdurante
possibilità per il datore di affidamento sull'esattezza
dell'adempimento delle prestazioni future.
Secondo la Cassazione, la giusta causa di licenziamento deve rivestire
il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto
di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il
giudice valutare:
- da un lato, la gravità dei
fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e
soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi e all'intensità del profilo intenzionale,
- dall'altro, la
proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per
stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la
collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da
giustificare la massima sanzione disciplinare.
Quale evento che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto, la giusta causa di licenziamento integra una clausola
generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite
valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e
dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante
specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione
è deducibile in sede di legittimità come
violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta
degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del
giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in
cassazione se privo di errori logici e giuridici.
È
sufficiente una denuncia non particolarmente circostanziata da parte
del dipendente all’Inps, e non anche al datore di lavoro, per far
scattare il periodo di prescrizione decennale per mancato versamento
dei contributi.
La Corte è stata chiamata a decidere su una vicenda che ha visto
contrapposti l’Inps e un’azienda a cui sono state inviate
delle cartelle esattoriali conseguenti la contestazione per il mancato
versamento di contributi per straordinari parzialmente “in
nero” e l’illegittimo utilizzo della cassa integrazione
ordinaria in più periodi e per alcuni dipendenti.
Rifacendosi a due precedenti sentenze di Cassazione la Corte ha
precisato che il termine di 5 anni, introdotto dalla legge 335/1995, si
applica salvo denuncia da parte del lavoratore o dei suoi superstiti e
che la denuncia va presentata all’Inps, senza obbligo di notifica
al datore di lavoro.
In presenza di una denuncia, inoltre, il termine decennale al posto di
quello quinquennale non si applica solo «all’oggetto
specifico di denuncia, essendo sufficiente che il lavoratore si
dolga... dell’inosservanza degli obblighi di legge, domandando
così un intervento degli organi deputati al controllo e alla
repressione che non può certo ritenersi circoscritto ai
riferimenti contenuti in denuncia».
Di conseguenza la sentenza della Corte d’appello è stata
cassata dai giudici di legittimità e rinviata ad altro
magistrato, che dovrà riesaminare la controversia secondo questo
principio di diritto: «...ai fini dell’applicazione del
termine di prescrizione ordinaria decennale è sufficiente che il
lavoratore abbia presentato una propria denuncia all’Inps,
relativa all’omissione contributiva del datore di lavoro, non
essendo necessario che, ai fini del più lungo termine di
prescrizione, la denuncia abbia un contenuto specifico e tecnicamente
precisato».
In
tema di infortunio sul lavoro, la Corte di Cassazione ha statuito che
il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile per
l’incidente occorso al lavoratore, senza che sia accertato che lo
stesso sia riconducibile alla violazione di uno specifico obbligo di
sicurezza o alla mancata predisposizione di idonee misure preventive.
Con la Sentenza n. 25395 del 17 dicembre 2015, la Suprema Corte ha
chiarito che, ai fini della responsabilità del datore ai sensi
dell’art. 2087 c.c., è necessaria l’individuazione
della situazione generativa del rischio, in quanto indispensabile e
preliminare alla verifica del rispetto delle misure di protezione
richieste relativamente alle condizioni dei luoghi di lavoro.